Bisogna forse andare oltre qualche commento didascalico (per non dire copia/incolla…) letto sulla stampa specializzata se si vuol provare a interpretare la Sentenza 15 marzo 2016, n. 5069 con cui le Sezioni Unite affrontano la lettura dell’articolo 38 del DPR 602/73 sul rimborso dei versamenti diretti. In questo caso si parla del comma 5 ovvero del rimborso che scaturisce dalla dichiarazione dei redditi.
Con l’ordinanza interlocutoria n. 23529 del 28 maggio 2014 depositata il 5.11.2014, la Sezione Tributaria della Corte aveva infatti trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della causa alle Sezioni Unite Civili, per la risoluzione del consapevole contrasto registrato nell’ambito della Sezione, in ordine alla questione relativa alla perentorietà o meno del termine entro il quale l’Amministrazione Finanziaria deve provvedere alla liquidazione ed agli effetti connessi all’inutile decorso di detto termine, con riferimento ai crediti di imposta esposti in dichiarazione.
La tesi posta in discussione nella predetta ordinanza, che viene esaminata dalle Sezioni Unite, è quella secondo cui, anche nel caso in cui il contribuente esponga nella denuncia dei redditi un credito fiscale, l’Amministrazione deve attivarsi a contestare i dati della denuncia entro i termini previsti dalla legge per l’esercizio del potere di accertamento; ed ove ciò non faccia il credito stesso si consolida e non può più essere disatteso.
Le Sezioni Unite non condividono tale interpretazione, recepita nella sentenza della quinta sezione n. 9339 del giorno 8 giugno 2012 e molto recentemente, implicitamente condivisa dalla sentenza 2277/2016 secondo cui “qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini di una imposta, esponendo un credito di rimborso, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso, salvo diversa espressa previsione normativa, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica. Diversamente, decorso il termine predetto, senza che sia stato adottato alcun provvedimento da parte della P.A., il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza nell’”an” e nel “quantum”, ed il contribuente potrà agire in giudizio a tutela del proprio credito nell’ordinario termine di prescrizione dei diritti, rimanendo preclusa all’Amministrazione finanziaria ogni contestazione dei fatti che hanno originato la pretesa di rimborso, salve le eccezioni volte a fare valere i fatti sopravvenuti impeditivi, modificativi, od estintivi del credito”.
Focale è il passaggio della sentenza delle Sezioni Unite “Appare cioè preferibile la soluzione accolta nella pregressa giurisprudenza e secondo cui i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito”.
D’altro canto, per le Sezioni Unite, il contribuente non è senza strumenti per far valere il proprio credito. Dovrà infatti presentare una istanza di rimborso e agire in giudizio contro il diniego o contro il silenzio-rifiuto.
Venendo poi alla questione specifica, posta da una fondazione bancaria per un credito datato 1997 e derivante da agevolazioni IRPEG (per le fondazioni bancarie, appunto) ex artt. 10-bis della Legge n. 1745/1962 e 6 del DPR n. 601/1973.
La Corte rileva che “In tema di IRPEG, il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, prevista dall’art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 (introdotto dall’art. 6 del decreto-legge 21 febbraio 1967, n. 22, convertito in legge 21 aprile 1967, n. 209), è subordinato alla prova, posta a carico del soggetto che invoca l’agevolazione, dell’effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche”.
Quindi la sentenza di appello va cassata con rinvio e la questione va riesaminata nel merito per accertare i requisiti di cui sopra.
Insomma dopo vent’anni da quando è stato esposto il credito in dichiarazione e dopo che il contribuente ha visto l’inerzia dell’amministrazione, si è attivato a chiedere il rimborso e ha fatto seguire la richiesta (rimasta anch’essa senza esito) ad un giudizio che ha percorso tre gradi, si ritorna indietro con l’onere ulteriore di documentare certi requisiti mai verificati in questo enorme lasso temporale. E non certo per un importo modesto, ma per una cifra in valuta attuale di circa un milione e mezzo di euro. Non indifferente dunque possederla nel 1997 o nel 2016 (e anzi ancora dopo…).
Massimo rispetto per la Corte, quindi. Ma forse una interpretazione orientata sui principi dell’ordinamento poteva a nostro modestissimo avviso condurre ad altre conclusioni.