La Sentenza 14 marzo 2019, n. 7240 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Cirillo, Rel. Napolitano) si occupa di un accertamento scaturito dal prezzo riportato in un preliminare di vendita di una villetta reperito in corso di verifica, preliminare la cui veridicità (con riferimento ad alcune firme apposte) è stata sempre contestata, fin dalla fase amministrativa, dalla società venditrice.
A giudizio della società ricorrente, dunque, a causa del disconoscimento della scrittura, ribadito in giudizio, essa non avrebbe dovuto assumere alcun rilievo probatorio, dal momento che l’Amministrazione finanziaria non aveva proposto istanza di verificazione della scrittura medesima, ex art. 216 cod. proc. civ.
La Corte ricorda preliminarmente al riguardo il principio per cui «Nel processo tributario, in forza del rinvio operato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, alle norme del codice di procedura civile, trova applicazione l’istituto del disconoscimento delle scritture private, con la conseguenza che, in presenza del disconoscimento della firma, il giudice ha l’obbligo di accertare l’autenticità delle sottoscrizioni, essendogli altrimenti precluso tenerne conto ai fini della decisione» (cfr., tra le altre, Cass. sez. 5, 20 marzo 2006, n. 6184; Cass. sez. 5, 31 marzo 2011, n. 7355; Cass. sez. 5, 8 giugno 2018, n. 14965; Cass. sez. 5, 19 ottobre 2018, n. 26402).
Su queste premesse i Giudici di Legittimità ritengolo poi di dover approfondire, alla luce dei fatti, se il disconoscimento così come effettuato sia stato idoneo a precludere l’utilizzabilità ai fini probatori della scrittura a sostegno della fondatezza dell’accertamento dell’Ufficio, confermata dalla sentenza della CTR.
In primis per la Corte occorre chiarire quali conseguenze siano riferibili al fatto che l’altro socio della s.n.c. ricorrente non abbia disconosiuto le firme: e conclude che tale omissione era fondamentale per considerare comunque riferibile l’atto alla S.n.c..
In secondo luogo va precisato cosa accade se, come è accaduto, il disconoscimento abbia riguardato non l’intera scrittura ma la sottoscrizione riferita ad alcune pagine del preliminare e precisamente quelle in cui si indicava il prezzo di vendita in una cifra più alta di quella esposta nell’atto definitivo.
La conclusione sul punto è che se la sottoscrizione nelle altre pagine non è stata disconosciuta, la paternità della scrittura medesima è comunque riferibile al socio che ha disconosciuto quelle firme. E dunque il documento è utilizzabile come prova. Se si voleva contestare la falsità ideologica della scrittura riguardo all’indicazione del prezzo della vendita, ottenuta forse mediante interpolazione delle relative pagine, in relazione alle quali l’amministratore aveva “disconosciuto” la propria sottoscrizione, ciò avrebbe dovuto essere fatto con la proposizione di querela di falso ex artt 221 e seguenti c.p.c..
Per riepilogare quindi, per la Sezione Tributaria il disconoscimento ex art. 216 c.p.c. inerisce alla singola firma disconosciuta. Contestare parzialmente le firme su un documento non serve a disconoscere la paternità del documento stesso (anche se, per la verità, il disconoscimento, nel caso specifico, riguardava proprio le pagine su cui si fondava l’accertamento). Per contestare la falsità del documento esiste solo la querela di falso ex art. 221 c.p.c. che, ricordiamo, ha l’effetto di sospendere il giudizio tributario ex art. 39, primo comma, D.Lgs. 546/92 fino all’esito del giudizio civile, in linea con quanto prevede l’art. 313 c.p.c.