La sentenza n. 16948 depositata il 25 giugno 2019 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione si occupa di presunzioni relative alle vendite infragruppo.
Nel caso specifico l’Agenzia delle Entrate aveva notificato ad una società un accertamento analitico-induttivo nel quale la vendita di energia elettrica, acquistata da un soggetto svizzero, ad una società dello stesso gruppo era stata ritenuta effettuata a un prezzo inferiore a quello normalmente praticato, determinando una perdita commerciale.
Veniva allora invocata la normativa sul valore normale (art. 9 TUIR), operando una valutazione delle cessioni sulla base dei parametri del transfer pricing.
Per la Corte le questioni centrali del giudizio sono 1) la configurabilità, nel nostro ordinamento, dell’istituto del transfer pricing domestico e 2) in quale modo possa rilevare, nell’ambito delle transazioni infragruppo interne, la nozione di “valore normale”.
Quanto alla prima questione, la nozione di transfer pricing domestico è affermata in alcune decisioni (v. in particolare Cass. n. 17955 del 24/07/2013, seguita poi da Cass. n. 8449 del 16/04/2014, Cass. n. 13475 del 13/06/2014 e Cass. n. 12844 del 12/06/2015). Secondo tali pronunce, nella valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, ossia tra società appartenenti al medesimo gruppo operanti sul territorio nazionale, deve essere applicato il principio stabilito dall’art. 9 tuir «che non ha soltanto valore contabile e impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente» e discende dal divieto di abuso del diritto, che trova fondamento nella disciplina UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva, precludendo «al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici».
Ma analizzando le fattispecie concrete alla base dei precedenti sul tema la Corte arriva a conclusioni diverse.
Infatti, a fronte di tale affermazione di principio, nelle sentenze n. 17955 del 2013 e n. 8449 del 2014 la fattispecie concreta era, di per sé, riconducibile ad una condotta potenzialmente elusiva poiché la società destinataria della cessione infragruppo godeva di una regolamentazione, territoriale nel primo caso e per regime giuridico nel secondo, di favore e agevolativa, sicché il trasferimento determinava una ingiustificata alterazione del regime impositivo. Nella sentenza n. 13475 del 2014, invece, la vicenda aveva ad oggetto una cessione dalla controllante alla controllata a costi eccessivi e, dunque, riguardava, in realtà, la congruità dei costi ai fini della loro deducibilità. Di minore rilievo, invece, è la decisione n. 12844 del 2015 che si limita ad ipotizzare, in astratto, l’applicazione del principio e dei criteri di cui all’art. 9 tuir, atteso che, nella vicenda concreta, era dubbia «la prova dell’operazione economica». Per completezza, infine, va ricordata la sentenza Cass. n. 23551 del 20/12/2012, che, invece, ha escluso l’utilizzabilità del criterio del valore normale di cui all’art. 9 tuir per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo tutte aventi sede in Italia sul duplice assunto che detto criterio è dettato dalla legge «solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera» e, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli “sconti d’uso”, «presuppone che la cessione sia avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente».
Dalle massime predette emergono, dunque, per la Corte, due diversi oggetti a fondamento del transfer pricing domestico: A) da un lato, esso connota la fattispecie quale condotta elusiva; B) dall’altro, interviene nella valutazione dell’operazione realizzata in termini di antieconomicità. Sussiste una evidente differenza tra le due situazioni poiché solo nel primo caso il valore normale è apprezzato quale parametro di valutazione delle transazioni in sé, mentre nel secondo opera sul diverso piano della congruità dei costi e/o dei profitti.
Con riguardo al primo profilo occorre rilevare, in primo luogo, che la Corte ha ormai da tempo escluso che la stessa disciplina del transfer pricing internazionale (art. 110, comma 7, tuir, ratione temporis vigente) abbia natura antielusiva in senso proprio in quanto finalizzata, in realtà, alla repressione del fenomeno economico (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato.
La ratio della normativa, infatti, va rinvenuta nel principio di libera concorrenza, sicché la valutazione in base al valore normale investe la sostanza economica dell’operazione, che va confrontata con analoghe operazioni realizzate in circostanze comparabili in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e prescinde dalla capacità originaria di produrre reddito e da qualsiasi obbligo negoziale (Cass. n. 7493 del 15/4/2016; Cass. n. 13387 del 30/6/2016; Cass. n. 27018 del 15/11/2017; da ultimo Cass. n. 898 del 16/01/2019).
La discrepanza rispetto al valore normale, dunque, non può neppure fondare – e a maggior ragione – una valutazione di elusività della transazione per le operazioni infragruppo tra società residenti. La divergenza rispetto al valore normale potrebbe, in ipotesi, legittimare una contestazione dell’operazione in sé, ossia in quanto lesiva del principio di libera concorrenza.
Manca, tuttavia, una norma che giustifichi un simile esito, neppure potendosi ritenere applicabile, in via analogica, l’art. 110 tuir.
Sul punto, del resto, è conclusivo che l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 147 del 2015, ha sancito che «la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato».
La disposizione, di espressa interpretazione autentica, ribadisce che è preclusa la possibilità di estendere l’applicazione delle regole sul valore normale alle transazioni interne infragruppo e chiarisce, dunque, che il valore normale è una regola particolare che deroga a quella generale del corrispettivo pattuito solo ove espressamente richiamata.
Esclusa, pertanto, l’applicabilità del principio di cui all’art. 9 tuir, per la Corte si deve ritenere che la stessa nozione di transfer pricing domestico sia estranea al nostro ordinamento.
Si osserva poi che nelle decisioni n. 17955/2013 e n. 8449/2014 le condotte contestate, come sopra rilevato, erano, di per sé, elusive, per cui la divergenza rispetto al valore normale finiva, in sostanza e al di là della formale enunciazione di principio generale, solo con il rappresentare un ulteriore elemento di riscontro.
L’adeguatezza del prezzo, in questa diversa prospettiva, è suscettibile, dunque, solo di integrare un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della fattispecie di elusione, la quale, peraltro, deve essere già esaustiva nella sua integrità.