La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria con la Ordinanza 16 dicembre 2019 n. 33050 (Pres. Cirillo, Rel. D’Orazio) si occupa del principio del “ne bis in idem” sostanziale, dandone una lettura che appare francamente contraria alle regole venutesi a determinare a livello comunitario.
Per ciò che ricordavamo dello specifico tema, infatti, i riferimenti sono sia alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che all’art. 4 del protocollo n. 7 stabilisce che “1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato.” sia all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che stabilisce “ Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge.”
Tali principi di matrice europea sono stati più volte applicati dalle Alte Corti che con proprie sentenze interpretative ne hanno individuato i contorni (tra le altre: 4 marzo 2014 “caso Grande Stevens”; 20 maggio 2014, “caso Nykanen”; 20 maggio 2014 “caso Glantz”; 20 maggio 2014 “caso Hakka”; 27 novembre 2014 “caso Lucky Dev”; 27 gennaio 2015 “caso Rinas”).
Si è in sostanza chiarito che l’operatività del suddetto divieto in ciascuno degli Stati membri non deve intendersi limitato ai soli processi penali ma a tutti quei procedimenti che diano luogo a sanzioni sostanzialmente penali.
La Corte EDU ha infatti elaborato fin dagli anni ’70 una serie di criteri – prima definiti nel “Caso Engel” e progressivamente affinati con la celeberrima sentenza “Grande Stevens” – volti a definire il carattere penale dei procedimenti e delle sanzioni nazionali prescindendo dalla classificazione giuridica offerta da ciascuno stato membro.
Nello specifico nel “Caso Nykanen”, la Corte ha affermato chiaramente la natura sostanzialmente penale degli illeciti formalmente classificati “amministrativi” secondo la legge nazionale. Devono perciò essere qualificate come “penali”, a prescindere dal nomen iuris, tutte quelle sanzioni che: 1) sono previste da una norma di legge generale applicabile a tutti i contribuenti; 2) non hanno una funzione compensativa del danno erariale arrecato; 3) realizzano una chiara funzione punitiva e deterrente al pari di quelle formalmente definite “penali”.
Per la Cassazione pare però che così non debba essere.
I Giudici di Legittimità ricordano infatti che la Corte di Giustizia UE (sentenza 20 marzo 2018, 524/15) ha affermato, ponendosi nel solco, sia della Corte europea dei diritti dell’uomo che della Corte Costituzionale, che l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale in forza della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta entro i termini di legge, qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura penale ai sensi del citato art. 50, purché siffatta normativa: a) sia volta ad un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari; b) contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti; c) preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti (Corte di Giustizia UE, 20 marzo 2018 causa C-524/15).
Spetta, dunque, al giudice nazionale accertare, tenuto conto del complesso delle circostanze del procedimento principale, che l’onere risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso .
In particolare, al paragrafo 45 si legge che “in materia di reati relativi all’Iva, appare legittimo che uno Stato membro si proponga , da un lato, di dissuadere e reprimere qualsiasi inadempimento, intenzionale o meno, alle norme afferenti alla dichiarazione e alla riscossione dell’Iva infliggendo sanzioni amministrative fissate, eventualmente , su base forfettaria e , dall’altro, di dissuadere e reprimere inadempimenti gradi alle menzionate norme, i quali sono particolarmente deleteri per la società e giustificano l’adozione di sanzioni penali più rigorose”. Il cumulo dei procedimenti e delle sanzioni non deve essere eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso (paragrafo 58).
Va aggiunto che anche per la Cassazione, in sede penale, non sussiste la violazione del “ne bis in idem” convenzionale nel caso della irrogazione definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e “Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione “A. e B. contro Norvegia” del 15 novembre 2016. In tale controversia penale, la S.C. non ha ravvisato la violazione del suddetto divieto nel caso di avvisi di accertamento di violazioni tributarie e di irrogazione delle relative sanzioni notificati all’imputato pochi mesi prima dell’inizio del procedimento penale per reati tributari relativi ai medesimi fatti (Cass., pen., depositata 14 febbraio 2018, n. 6993; in tal senso anche Cass., pen., depositata il 18 luglio 2017, n. 35156; Cass., pen., depositata il 22 maggio 2019, n. 22458; per l’applicazione del principio “sufficiently closely connected in substance and in time” vedi Cass., pen., depositata il 7 giugno 2019, n. 2535).
Nel caso specifico le fatture erano relative agli anni 2006 e 2007, gli avvisi di accertamento sono stati notificati nel 2011, il processo verbale di constatazione è del 5-10-2011, la richiesta di applicazione della pena è del 17-9-2012, la pena è stata applicata il 6-2-2013, i ricorsi dinanzi alla CTP sono dell’11-10-2012).
Dunque tra l’accertamento in sede tributaria ed il procedimento penale, la denunciata violazione del ne bis in idem – neppure peraltro denunciata in relazione al parametro di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convezione europea dei diritti dell’uomo, quali interpretati dalla Cedu, cui il giudice nazionale è tenuto ad ispirarsi nell’applicazione di norme interne (Cass., sez.un. Penali, 28 aprile 2016, dep. 14 febbraio 2016, n. 27620) – non è riscontrabile nella fattispecie in esame, in cui alla sanzione amministrativa deve riconoscersi natura sostanzialmente penale (Cass.pen., sez 3, 22 settembre 2017, dep. 14 febbraio 2018, n. 6693).
Insomma lo stacco temporale tra le due sanzioni, se non abbiamo capito male, sono legittime (anche se l’amministrativa ha di fatto connotazione “penale”) per il fatto che i tempi di irrogazione delle sanzioni non sono tali che tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema.
Avevamo un’idea abbastanza chiara dei principi di matrice europea. Essa diviene assai meno chiara dopo questa pronuncia.