“Il fatto che l’accertamento sia stato basato sugli elementi del p.v.c. e che questo sia stato precedentemente reso noto al contribuente vale a renderlo “perfetto” sotto il profilo della sua motivazione, ma non è sufficiente a dare dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria che non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione”
Questo il principio di diritto ribadito con ordinanza n. 29878 del 30 dicembre 2020 dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Virgilio, Rel. Fanticini) in relazione ad una controversia sorta tra l’amministrazione finanziaria ed una società a responsabilità limitata operante nel settore della compravendita immobiliare.
Nei fatti la Guardia di Finanza nell’ambito di una verifica fiscale nei confronti della società contribuente per le annualità 2004-2005-2006-2007 aveva rilevato una netta discordanza tra il prezzo degli immobili venduti e numerosi altri elementi raccolti atti a dimostrare l’omessa dichiarazione dei più elevati ricavi e l’evasione delle imposte. L’Agenzia emetteva avviso di accertamento solamente richiamando quanto riportato nel p.v.c., senza allegarlo all’atto e senza soprattutto produrlo successivamente in giudizio; la società impugnava tempestivamente tale atto impositivo. La CTP accoglieva il ricorso della contribuente reputando arbitrario il riferimento ai valori OMI da parte dell’Amministrazione. La CTP respingeva il ricorso dell’Agenzia affermando come la stessa non avesse assolto il proprio onere probatorio, in quanto aveva mancato di produrre in giudizio il processo verbale di constatazione corredato della documentazione impiegata per dimostrare la pretesa erariale.
I Giudici di Legittimità, respinto il ricorso dell’Agenzia, hanno ribadito come la giurisprudenza della Corte sia univoca nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso: in particolare l’esistenza di una adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge, essendo diverse ed entrambe essenziali le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere.
Come ricordato nell’occasione dalla Corte infatti: la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica (presidiata dall’art. 7 della legge n. 212/2000) ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze; la prova attiene invece al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso. In definitiva tra l’una e l’altra corre la stessa differenza concettuale che vi è tra allegazione di un fatto costituivo della pretesa fatta valere in giudizio e prova del fatto medesimo. Ragione per cui, in mancanza del p.v.c. più volte richiamato dall’avviso di accertamento e indicato come indispensabile nella sentenza di primo grado, la Corte non ha dunque ritenuto raggiunta la prova dei fatti costitutivi posta a carico dell’amministrazione.
Irrilevante, tra l’altro, come ricordato dalla Corte che il processo verbale di constatazione fosse stato a suo tempo notificato alla società contribuente: infatti a seguito dell’impugnazione giudiziale del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo di accertamento dell’imposta, ci si muove in un ambito strettamente processuale, in cui anche, e soprattutto, il giudice, oltre che le parti, deve essere messo in grado di conoscere, e per intero, tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione (tra le altre Cass. 5903/2019, Cass. 5904/2019, Cass. 3978/2017, Cass. 21509/2010).
Né, la Corte ha accolto la specifica doglianza dell’Agenzia secondo la quale la C.T.R. avrebbe omesso di esercitare i propri poteri officiosi di indagine per acquisire il p.v.c. Secondo consolidata giurisprudenza, l’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, attribuisce al giudice tributario il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma soltanto in funzione integrativa degli elementi di giudizio, il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione obiettiva di incertezza e laddove la parte non possa provvedere per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi (cfr. Cass. 955/2016, Cass. 10401/2018 e Cass. 25563/2017).