La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, nella Ordinanza 7 luglio 2021, n. 19368 (Pres. Cirillo, Rel. Condello) torna sulla questione della interpretazione dell’articolo 58 del D.Lgs. 546/92 con riferimento alla produzione in appello di nuovi documenti. E lo fa, accogliendo una eccezione della parte pubblica (nel caso specifico l’agente della riscossione) in maniera approfondita. Vale pertanto la pena di ripercorrere i passaggi principali della pornuncia.
La Corte rileva anzitutto come nel caso specifico la Commissione tributaria regionale, in consapevole contrasto con la sentenza n. 13133 del 2010 della Cassazione, aveva affermato che l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 non consente in modo automatico la produzione in appello di nuovi documenti, ma, secondo una interpretazione costituzionalmente più orientata, solo di quelli che «non costituiscono una nuova prova» e di quelli che «intendono costituire aggiunta o chiarimento delle prove già offerte, nei modi e nei termini di cui all’art. 32. E ciò al pari di quanto disposto per le nuove domande e per le nuove eccezioni ex art. 57 d.lgs. n. 546/92». Secondo la CTR tale interpretazione, si renderebbe necessaria a tutela di esigenze di ordine costituzionale, ed in particolare dei principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e del pieno diritto di difesa (art. 24 Cost.), che, altrimenti, nel caso di comportamento omissivo di una parte, contumace in primo grado, sarebbero precluse o altrimenti ridotte a danno dell’altra parte che sarebbe sostanzialmente privata del doppio grado del giudizio di merito.
Secondo la Corte ragioni poste a fondamento del decisum non sono condivisibili e non si pongono in linea con il costante ed univoco orientamento di questa Corte secondo cui «la piana lettura dell’art. 58 citato abilita alla produzione di qualsivoglia documento in appello, senza restrizione alcuna e con disposizione autonoma rispetto a quella che – nel comma precedente – sottopone a restrizione l’accoglimento dell’istanza di ammissione di altre fonti di prova» (Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n. 22776; Cass., sez. 5, 22/11/2017, n. 27774; Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8313; Cass., sez. 5, 16/11/2018, n. 29568; Cass., sez. 5, 7/03/2018, n. 5429).
Anche se non si ignora una risalente pronuncia secondo cui questa produzione nuova potrebbe avvenire solo senza l’effetto di allargare l’oggetto del contendere rispetto a quello di primo grado, in quanto la produzione non potrebbe essere esercitata in contrasto con l’art. 57 d.lgs. n. 546 del 1992, il quale, escludendo l’introduzione di eccezioni e tematiche nuove, non consente l’ampliamento della materia del contendere neppure attraverso la produzione di nuovi documenti (Cass., sez. 5, 21/01/2009 n. 1464), in generale nel processo tributario di appello le parti possono produrre qualsiasi documento, pur se già loro disponibile in precedenza (Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n.22776), e tale principio opera anche nell’ipotesi di deposito in sede di gravame dell’atto impositivo notificato, trattandosi di mera difesa, volta a contrastare le ragioni poste a fondamento del ricorso originario, e non di eccezione in senso stretto, per la quale opera la preclusione di cui all’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8313).
Come chiarito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 401 del 28 luglio 2000, in relazione all’art. 345 cod. proc. civ., la possibilità che una attività probatoria rimasta preclusa nel giudizio di primo grado sia esperita in appello, per cui l’instaurazione del giudizio di secondo grado sia l’unico mezzo attraverso il quale quell’attività possa essere svolta, non è di per sé irragionevole, se si considera che nel giudizio di primo grado la previsione del termine per l’adempimento mira a scongiurare il prolungamento dei tempi di definizione del giudizio stesso, mentre la previsione contemplata per il secondo grado di giudizio ha il diverso fine di temperare proprio la rigida preclusione dell’attività probatoria intervenuta nel primo grado di giudizio e, quindi, costituisce una scelta discrezionale del legislatore, come tale insindacabile.
La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 199 del 2017, pronunciando sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 — sollevata dalla C.T.R. della Campania la quale ha dubitato della conformità ai principi costituzionali della facoltà di produrre per la prima volta in appello documenti di cui la parte già disponeva nel grado anteriore, ha ritenuto non fondate le censure.
Quanto alla presunta disparità di trattamento, ha rilevato che «tale facoltà è riconosciuta ad entrambe le parti del giudizio, cosicché non sussistono le ragioni del lamentato sbilanciamento». Relativamente all’altra censura, premesso che è stato più volte chiarito che non esiste un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i diversi tipi di processo (Corte Cost., sentenze n. 165 e n. 18 del 2000, n. 82 del 1996; ordinanza n. 217 del 2000), e, più specificatamente, un principio di uniformità del processo tributario e di quello civile (tra le altre, ordinanze n. 316 del 2008, n. 303 del 2000, n. 330 e 329 del 2000, n. 8 del 1999), ha escluso che possa ravvisarsi una compressione dell’esercizio del diritto di difesa per la perdita di un grado di giudizio, poiché la garanzia del doppio grado di giudizio non gode, di per sé, di copertura costituzionale (Corte Cost. sentenza n. 243 del 2014; ordinanza n. 42 del 2014 e 190 del 2013, n. 410 del 2007 e n. 84 del 2003).
Le argomentazioni svolte dalla Corte Costituzionale impongono di ritenere che nella facoltà prevista dal comma 2 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 non possa rilevarsi un vulnus nei confronti della parte diligente talmente grave da rendere illegittima sul piano costituzionale la disposizione di legge.
Per altro verso, la tutela della parte più diligente può trovare ulteriore considerazione in tema di determinazione delle spese di giudizio (ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 546 del 1992, che ricomprende le spese cagionate dalla trasgressione del dovere di lealtà e di proibità – art. 88 cod. proc. civ.) (in tal senso, Cass., sez. 5, 11/04/2018, n. 8927, in motivazione), potendo il giudice tributario valutare, a tal fine, il complessivo andamento del processo alla luce anche del comportamento tenuto dalla parte nel giudizio di primo grado, soprattutto se la produzione di documenti in appello dovesse risultare frutto di una negligenza o di un calcolo di convenienza processuale o difensiva.
Alla stregua delle considerazioni svolte, è evidente che la C.T.R. non si è attenuta ai principi su esposti poiché ha omesso di valutare la produzione documentale dell’appellante, ai fini della decisione sulla eccepita illegittimità degli atti impositivi per assenza della notifica delle cartelle esattoriali, non potendosi escludere che la produzione in appello, da parte dell’Agente per la riscossione, delle copie degli estratti di ruolo relativi alle cartelle esattoriali con relative attestazioni di avvenuta notificazione, nonché delle attestazioni di avvenuta notificazione degli avvisi di intimazione di pagamento, fosse consentita anche alla parte rimasta contumace in primo grado, dal momento che il divieto di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 57, concerne solo le eccezioni in senso stretto (Cass., sez. 5, 31/05/2011, n. 12008; Cass., sez. 5, 15/06/2007, n. 14020).