Interessante e per certi aspetti innovativa l’ordinanza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 23384 depositata il 24 agosto 2021 (Pres. Virgilio, Rel. Catallozzo).
Il tema è quello delle cosiddette “Società di comodo”, ovvero della normativa introdotta nell’ordinamento italiano con l’art. 30, legge n. 724/1994. La logica della normativa, assai cara all’allora Ministro Tremonti era qualla di contrastare l’uso dello strumento societario per l’intestazione di beni senza che vi fosse un reale svolgimento di attività economica. In realtà in periodi nei quali molte realtà sono davvero ferme (si pensi ai molti immobili industriali sfitti) questa impostazione è divenuta un ulteriore strumento per spremere gettito laddove non c’è capacità contributiva effettiva e disponibile. Un’altra patrimoniale, insomma. Sono dunque da salutare con favore interpretazioni di apertura della giurisprudenza, anche alla luce del fatto che dopo la modifica dell’istituto dell’interpello si è prevista la non impugnabilità degli interpelli in questa materia e dunque anche questo strumento collaborativo è ormai lasciato alla discrezionalità del singolo funzionario (salve valutazioni in ordine alla possibile incostituzionalità della riforma sotto questo profilo).
Secondo la Corte la normativa, nella formulazione applicabile al caso in esame ratione temporis, esclude dalla applicazione della richiamata disciplina antielusiva quelle società che dimostrino l’esistenza di «oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto …». Ciò per la modifica della norma operata con l’art. 35, comma 15, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con modif., dalla I. 4 agosto 2006, n. 248, che, ai fini della sottrazione dall’applicazione della disciplina antielusiva, ha fatto venir meno la necessità che tali oggettive situazioni scriminanti dovessero avere «carattere straordinario».
Quindi deve ritenersi che la nozione di impossibilità cui fa riferimento la fattispecie in esame deve essere intesa non in termini assoluti, quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (cfr. Cass., ord., 12 febbraio 2019, n. 4019; Cass. 20 giugno 2018, n. 16204; Cass., 28 febbraio 2017, n. 5080). L’attribuzione di un siffatto significato al concetto di impossibilità di cui alla fattispecie in esame risulta, inoltre, in linea anche con l’evoluzione normativa che ha interessato l’istituto, che, come rammentato in precedenza, ha eliminato nel comma 4-bis il riferimento al «carattere straordinario» delle oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, attenuando in tal modo il rigore della precedente formulazione e l’eccezionalità della situazione scriminante;
La nozione di impossibilità va, dunque, intesa in senso elastico, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standards minimi legali ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta (così, Cass., ord., n. 24314/20). In tal senso, è stato affermato che può costituire elemento rilevante ai fini della sussistenza di una circostanza oggettiva idonea a superare la presunzione relativa derivante dal mancato superamento del test di operatività, il fatto che l’attività economica non sia stata posta in essere a causa della impossibilità di utilizzare un immobile per lo svolgimento dell’attività, a causa della protrazione dei lavori di realizzazione o di ritardi nel rilascio delle necessarie autorizzazioni, qualora il contribuente dimostri che le ragioni della protrazione o del ritardo non siano dipesi da un proprio comportamento, ma da ragioni estranee alla propria volontà (così, Cass., ord., 30 dicembre 2019, n. 34642).
Nel caso specifico, paradossalmente, la Commissione regionale ha escluso che la contribuente avesse offerto la prova della ricorrenza di una siffatta circostanza, ritenendo che la non operatività della contribuente doveva ricondursi o a «un concentrarsi di eventi sfortunati … o [a] una “inettitudine produttiva” dovuta a una mancanza di strategie imprenditoriali».
Ma se anche fossero stati questi i motivi, rilevano i Giudici della Sezione Tributaria, entrambe le cause individuate sarebbero idonee a costituire oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di risultati, derivanti dallo svolgimento dell’attività di impresa, conformi agli standards minimi previsti dall’art. 30. Infatti, il riferimento al «concentrarsi di eventi sfortunati» evoca un fattore causale non riconducibile alla volontà della contribuente quanto, piuttosto, cause ad esse estranee. Analoga considerazione può svolgersi con riferimento alla affermata «inettitudine produttiva», espressiva non già di una mancanza di volontà dell’imprenditore di svolgere l’attività di impresa, quanto di una incapacità dello stesso a raggiungere determinati risultati, voluti, ma non conseguiti per un suo deficit di capacità.
Quindi la sentenza della CTR viene cassata con rinvio in considerazione del fatto che poggia su principi di diritto palesemente errati.