Secondo l’OIC 16 il trattamento civilistico delle spese di manutenzione distingue tra spese di carattere ordinario e straordinario.
Si ha allora che “I costi sostenuti per ampliare, ammodernare o migliorare gli elementi strutturali di un’immobilizzazione materiale, incluse le modifiche apportate per aumentarne la rispondenza agli scopi per cui essa è stata acquisita, sono capitalizzabili se producono un aumento significativo e misurabile della capacità produttiva, sicurezza o vita utile. Se tali costi non producono questi effetti, sono trattati come manutenzione ordinaria e addebitati al conto economico.
Variazioni rilevanti apportate a cespiti già esistenti a seguito delle predette operazioni comportano un’attenta valutazione dei costi sostenuti per determinarne la parte che è capitalizzabile e quella che è invece da considerarsi manutenzione ordinaria”.
Ma questa distinzione che è tutta civilistica e che trova la sua ragion d’essere nella rigida applicazione del criterio di competenza è esattamente riproponibile in ambito tributario?
Secondo la Corte di Cassazione, da ciò che si legge nella Sentenza 20 aprile 2016 n. 7885, parrebbe di no.
Ed infatti nella motivazione si legge: “L’art. 102 comma 6 del DPR 22 dicembre 1986 n. 917 stabilisce che le spese di manutenzione, riparazione, trasformazione e ammodernamento dei beni strumentali all’esercizio dell’impresa, qualora non siano imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili nel limite del 5% costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili; l’eventuale eccedenza è deducibile per quote costanti nei cinque esercizi successivi a quello nel quale la spesa è stata sostenuta”.
Addirittura secondo la Corte esisterebbe, dal lato fiscale, una certa discrezionalità del contribuente (al punto di parlare di “opzione”): “La disposizione normativa consente all’imprenditore di esercitare l’opzione tra la capitalizzazione delle spese incrementative quale aumento del costo del bene ammortizzabile, ovvero la loro deduzione immediata entro i limiti quantitativi prefissati (deduzione dì importo non superiore al 5% del costo complessivo dei beni ammortizzabili; deduzione dell’eccedenza per quote costanti nei cinque esercizi successivi)”.
Ne consegue, secondo la Cassazione, l’erroneità della interpretazione adottata nella sentenza impugnata, in cui si afferma che le spese di manutenzione aventi natura incrementativa, dovevano obbligatoriamente essere imputate ad aumento dei costi dei beni ammortizzabili, “e non potevano rientrare nella quota del 5% ammortizzabile nell’anno”.