Una interessante e per alcuni versi innovativa riflessione risulta quella contenuta nella ordinanza n. 450 del 11 gennaio 2018 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Bielli, Rel. Caiazzo) in tema di inerenza dei costi di impresa, che si pone tra l’altro in espresso contrasto con precedente giurisprudenza della Corte stessa.
Aspettiamo ancora qualche conferma prima di abbracciare le conclusioni contenute negli entusiastici commenti odierni di alcuna stampa specialistica visto che, tra l’altro, le predette riflessioni di apertura nei confronti del contribuente si chiudono invece, nel caso specifico, sebbene per ragioni coerenti con esse, con un rigetto del ricorso della società.
Ma è indubbio che l’elemento di novità vada evidenziato. E che esso potrebbe portare una svolta interpretativa di non poco conto, qualora tale lettura si consolidi.
Per la Corte va disattesa infatti la definizione della nozione dell’inerenza, utilizzata da parte della giurisprudenza precedente, formulata in termini di suscettibilità, anche solo potenziale, di arrecare, direttamente e indirettamente, una utilità all’attività d’impresa, e costituente requisito generale della deducibilità dei costi (v. Cass. n. 10914/15).
Tale orientamento infatti pone erroneamente un necessario legame tra il costo e l’attività d’impresa secondo un parametro d’utilità, all’interno di una relazione deterministica che sottende rapporti di causalità. In altri termini, secondo la tesi criticata, l’utilità deve essere apprezzata considerando anche la dimensione quantitativa della spesa, per cui un costo potrebbe essere inerente anche solo in parte.
Ma il concetto aziendalistico e quello civilistico di spesa non sono necessariamente legati all’elemento dell’utilità, essendo configurabile quale costo anche ciò che, nel singolo caso, non reca utilità all’attività d’impresa.
Viceversa, l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo.
In questo quadro concettuale, occorre precisare che l’evidenziazione dì un comportamento antieconomico in relazione all’imposta sui redditi e dell’iva non può giustificarsi identificando l’inerenza con la sproporzione o l’incongruità dei costi (v. Cass., n. 10269/17) perché il giudizio di inerenza deve essere qualitativo, non quantitativo, e non si ricollega all’art. 75, 5°c., Tuir (ora 109), ma è strettamente correlata alla nozione stessa di reddito d’impresa.
Quindi la novità interpretativa è importante sia per valutare l’inerenza, sciogliendola da un rapporto causale tra costo e ricavo che non sempre nell’attività di impresa esiste (magari!…). Per questa via si esclude di “pesare” l’incidenza del costo nella determinazione (quantitativa) del ricavo. E si accetta l’inerenza di ogni possibile spesa potenzialmente produttiva di risultati economici positivi, affrancando quindi comportamenti “antieconomici” del tutto involontari (perché potenzialmente produttivi di utile).
Non è davvero poco….