“Le presunzioni di cessione e d’acquisto, poste dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53, sono presunzioni legali relative, annoverabili tra quelle cosiddette “miste”, che consentono, cioè, la dimostrazione contraria da parte del contribuente, ma unicamente entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova ivi prefigurati e stabiliti ad evidenti fini antielusivi. In particolare, la presunzione di acquisto di beni, prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53, comma 4, nell’ammettere, tra l’altro, la prova contraria del contribuente di averli ricevuti in base ad un rapporto di rappresentanza, limita la dimostrazione della sussistenza di tale rapporto alla sola prova documentale di determinati atti tassativamente elencati e cioè atto pubblico, scrittura privata registrata, lettera annotata in apposito registro, in data anteriore a quella in cui è avvenuto il passaggio dei beni, presso l’ufficio i.v.a. competente in relazione al domicilio fiscale del rappresentante o del rappresentato” (cfr.: Cass. nn. 1134/01, 7121/03; 10947/02; 3929/02).
Il passaggio motivazionale riportato è collocato nella Sentenza 28 luglio 2006 n. 17210. Ed è richiamato dalla recente Sentenza 8 luglio 2016, n. 13979 Pres. Schirò, Rel. Perrino.
Il contribuente si era difeso efficacemente in grado di appello sulla base delle prove raccolte e valorizzate nel correlato processo penale. La CTR aveva accolto tali argomentazioni, reputando idonee a superare le presunzioni legali relative di acquisto di beni reperiti nel luogo dove la società esercita la propria attività e di cessione dei beni ivi non reperiti le risultanze, anche testimoniali o peritali emergenti dalla sentenza penale di assoluzione menzionata in narrativa.
Per la Cassazione invece vale l’assunto riportato in apertura di queste brevi osservazioni. Non basta la prova contraria rispetto alla presunzione, ma ci vuole “quella” prova. Cioè la documentazione da fornire è quella prevista dal primo e secondo comma dell’articolo 53 del decreto IVA e le circostanze da valorizzare sono quelle previste dal quarto comma (e soltanto quelle).
Non si può non avere un dubbio, in questa chiave di lettura, che la norma citata generi delle perplessità di non poco conto con riferimento all’articolo 24 della Costituzione, comportando di fatto una limitazione del diritto di difesa. La motivazione di tale impostazione formalistica, che fa riferimento ad “evidenti fini antielusivi”, poi, non convince sotto il profilo della ragionevolezza, con altri riflessi di possibile illegittimità costituzionale.