La III Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36915 depositata il 22 dicembre 2020 (Pres. Liberati, Rel. Scarcella), affronta una questione relativa al reato di dichiarazione infedele con utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
La disquisizione è molto ampia e completa, investendo addirittura 25 capoversi in punto di motivazione ed offre una panoramica molto interessante della giurisprudenza e della normativa.
Ci preme in questo contesto evidenziare le considerazioni della Corte in ordine al tema delle presunzioni fiscali in sede penale.
La giurisprudenza è in tale ambito, ricordano i Giudici di Legittimità, univoca nel sostenere che nel processo penale le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto che, unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, devono poter essere valutati liberamente dal giudice penale (ex multis: Sez.III, n. 7078/2013; Id., n. 30890/2015; Id., n. 7242/2018).
Nel processo penale l’imputato non è tenuto, pena la sanzione, a fornire la prova della propria innocenza, essendo invece la pubblica accusa a dovere dimostrare la responsabilità penale dello stesso, con conseguente inammissibilità, ex art. 27 Cost., comma 2, di un’inversione dell’onere probatorio analoga a quella operante nel sistema tributario.
Il legislatore pone inoltre un limite al giudizio del materiale probatorio qualora esso si riduca ad elementi indiziari, quali sono le presunzioni: l’art. 192 c.p.p., comma 2, stabilisce infatti che perché esse possano legittimamente fondare l’esistenza di un fatto dovranno essere gravi, precise e concordanti. Tali differenze evidenziano le diverse finalità perseguite dai due procedimenti: quello tributario mira al recupero del quantum evaso, mentre quello penale è diretto ad accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’attribuibilità o meno della condotta illecita all’imputato, ergo la sua colpevolezza e sanzionabilità.
Ne consegue che gli elementi raccolti da parte della P.A. competente verranno impiegati come meri indizi dal giudice penale, cosicché quanto posto a fondamento dell’iter ricostruttivo condotto dall’ufficio tributario in sede di accertamento, non possiederà, nel giudizio penale, la valenza propria di prova legale relativamente al risultato dell’accertamento stesso, dovendo gli stessi essere apprezzati autonomamente dall’organo giudicante nella loro reciproca gravità, precisione e concordanza, ed unitamente alla rimanente parte del patrimonio probatorio disponibile.
Si deve escludere dunque una meccanica trasposizione delle presunzioni tributarie tale da ritenere provato il fatto solo perché il contribuente non è riuscito a fornire la prova necessaria per il superamento del risultato ottenuto mediante il sistema presuntivo.
Ulteriore conferma dell’incompatibilità sostanziale tra i due procedimenti si riscontra nella possibilità riconosciuta all’Ufficio tributario, sebbene a determinate condizioni, di fondare l’attività accertativa anche su presunzioni c.d. semplicissime, ossia non connotate dai requisiti di cui all’art. 2729 c.c., le quali ovviamente non potrebbero trovare spazio alcuno nell’iter decisionale del giudice penale.
In sintesi, è pertanto possibile riconoscere nelle presunzioni tributarie elementi utili a formare, nella disamina completa e critica del compendio probatorio acquisito nel corso del dibattimento, il (libero) convincimento del giudice, non potendo invece costituire via più breve per una condanna, essendo assunte non con l’efficacia di certezza legale ma come dati aventi valore indiziario che, per assurgere a dignità di prova, dovranno trovare un riscontro oggettivo o in distinti elementi probatori o in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti (Sez. III n. 30890/2015).
Anche per tali indizi dovrà quindi essere seguito quel procedimento induttivo che consente di inferire con certezza il dato ignoto da quello noto, con la conseguenza che un’affermazione di responsabilità potrà essere fondata su elementi indiziari soltanto se gli stessi, specificamente indicati in motivazione e valutati nel loro nesso logico, permettano l’attribuibilità del fatto all’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma anche che lo stesso non può essersi ragionevolmente svolto in modo contrario (Sez. III, n.24152/2019).