“Il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini lva, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”.
In questo principio di diritto si condensa la questione che con una ordinanza interlocutoria della sottosezione tributaria della sesta sezione civile (ord. 24432/14) era stata rimessa alle Sezioni Unite. E che è stata appunto decisa sui principi di diritto (pur considerando il ricorso inammissibile) con la sentenza 21 aprile 2016, n. 8059.
In concreto si trattava di un architetto che avendo cessato l’esercizio della sua attività professionale nel 1997 solo nel 2002 aveva incassato delle somme relative alla pregressa attività professionale. Secondo i giudici di merito, sia di primo grado che d’appello, il relativo compenso non era assoggettabile ad iva, difettando, al momento della riscossione, il presupposto soggettivo dell’imposta previsto dal combinato disposto dagli artt. 1 e 5, comma 1, d.p.r. 633/1972 (nella specie: la qualifica di professionista). Con ciò, le Commissioni provinciale e regionale avevano conseguentemente postulato che i compensi percepiti dal professionista dopo la cessazione dell’attività sono assoggettabili solo ad irpef, quali redditi diversi di cui all’art. 67, lett. l, d.p.r. 917/1986.
Secondo le Sezioni Unite occorre invece tener conto della concettuale scissione della nozione di imponibilità a fini iva, riferita alla genesi dell’obbligazione tributaria, rispetto a quella di esigibilità dell’imposta, intesa quale attualità della pretesa dell’Erario alla relativa riscossione.
In tale configurazione la norma interna sul momento impositivo (art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972) è suscettibile di una lettura coerente con i canoni (comunque destinati a prevalere in ragione della primazia del diritto comunitario in materia di tributi armonizzati) sanciti della disciplina sovranazionale.
Ciò detto allora il fatto generatore del tributo iva e, dunque, l’insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati con la materiale esecuzione della prestazione. Solo per esigenze funzionali il conseguimento del compenso diviene condizione di esigibilità ed estremo limite temporale per l’adempimento dell’obbligo di fatturazione. Ma l’imponibilità esiste a prescindere dall’incasso e ciò comporta, quale indefettibile corollario, che i compensi di prestazioni da attività imprenditoriale o professionale, conseguiti dopo la cessazione dell’attività medesima, devono ritenersi assoggettati ad iva.
Non molto aggiungono al ragionamento le considerazioni sullo schema applicativo dell’iva e in special modo sulla sua neutralità.
Come correttamente rileva oggi il principale quotidiano economico nazionale rimangono dei problemi pratici. Come fatturare quando si è chiusa la partita iva? O in alternativa, come non pagare IVA al momento della cessazione dell’attività fatturando tutto ciò che non si è ancora incassato?
Chiariti i principi, tutto sommato condivisibili, e l’esigenza di non perdere gettito per l’imposta amministrata in ambito UE, ci vorrà forse una norma interna che chiarisca il meccanismo da adottare. Magari si potrebbe intervenire sul meccanismo dell’IVA per cassa del d.l. 83/2012 (che però ha il limite annuale dall’emissione della fattura) consentendone l’adozione senza termine per le fatture emesse dal professionista che cessa l’attività, oppure direttamente sull’articolo 6 del decreto iva (meglio). Ma un intervento normativo è ora auspicabile.