La Sentenza 26 luglio 2017, n. 37136 della III Sezione Penale della Corte di Cassazione (Pres. Cavallo, Rel Gai) affronta il ricorso di un professionista (avvocato) finalizzato ad ottenere la revoca di un sequestro preventivo. Relativamente al predetto professionista era stata verificata la disponibilità in Albania di un conto corrente sul quale erano affluiti in pagamenti in contanti “in nero” delle parcelle relative all’attività professionale di avvocato svolta in Milano (circostanza non contestata).
Tali somme non erano state dichiarate nel riquadro RW della dichiarazione dei redditi e venivano parzialmente rimpatriate in maniera occulta (trasferite in Italia in contanti in occasione di viaggi in Albania come scoperto all’aeroporto di Milano Malpensa).
La circostanza che il professionista avesse debiti con l’Erario, già accertati per € 315.675,06, ed essendosi dichiarato finanziariamente incapiente per ottenere la rateizzazione del debito tributario, lo fa indagare per il reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, come sostituito dall’art. 29, comma 4, d.l. n. 78 del 31 maggio 2010, convertito con modificazioni nella legge n. 122 del 30 luglio 2010. La norma sanziona, alternativamente, la condotta di chi, allo scopo di sottrarsi al pagamento di imposte (sui redditi o sul valore aggiunte o di interessi o sanzioni relativi a tali imposte), aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Per La Corte il sequestro per equivalente che è stato disposto in relazione a tale ipotesi di reato è giustificato. Infatti prevedendo tale reato il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori).
Quindi il fatto che il conto estero non fosse ricollegabile al debito fiscale in essere non è ritenuto rilevante.
Quanto al fatto che il saldo del conto, su cui come detto si è disposto il sequestro preventivo per equivalente, fosse molto più alto (800.000 euro circa) del debito fiscale in corso di rateazione, la Corte ricorda il principio affermato dalla propria precedente giurisprudenza secondo cui, con riguardo al reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, va individuato non nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di reato di pericolo della fattispecie, attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust e altro; Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza).