Ci è capitato oggi di leggere due pronunce della Suprema Corte degli ultimi giorni, ambedue in tema di accertamenti analitico-induttivi. Si tratta della Ordinanza 12 aprile 2019, n. 10382 della VI Sezione (Pres. Greco, Rel. Luciotti) che fa riferimento ad un accertamento basato su un non meglio specificato “metodo parametrico” e della Ordinanza 17 aprile 2019, n. 10711 della V Sezione (Pres. Cirillo, Rel. D’Orazio) che si occupa di un accertamento fondato invece sugli studi di settore.
Vi diciamo subito che gli esiti processuali non sono omogenei.
Per i Giudici della Sezione filtro va confermato il principio affermato in materia di contraddittorio endoprcedimentale da Cass., Sez. U., n. 24823 del 2015, secondo cui per i tributi “non armonizzati” non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un generalizzato obbligo di contraddittorio nella fase amministrativa, sussistente solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito, mentre per i tributi “armonizzati” grava sul contribuente, in ipotesi di violazione del contraddittorio, l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere nella fase amministrativa.
Nella seconda, la Sezione Tributaria, coerente con l’impostazione delle Sezioni Unite dal 2009 in avanti, ricorda che l’accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.
Insomma accertamento con “metodo parametrico” senza contraddittorio (almeno sui tributi interni) e accertamento basato sugli studi di settore con contraddittorio preventivo obbligatorio.
Non si capisce dalla motivazione della prima in cosa consista il “metodo parametrico”, ma certo che se si trattasse dei “parametri” per l’accertamento standardizzato che trae origine dall’art. 3, co. 179 – 189, Legge 28 Dicembre 1995, n. 549, le conclusioni dovrebbero essere le stesse degli “studi”. Si tratta di “standards” appunto, gli uni e gli altri, “standards” a cui si riferivano indistintamente le celeberrime sentenze delle Sezioni Unite del 18 dicembre 2009. Sentenze confermate dalle Sezioni Unite del 2015 (n. 24823) seppur con riferimento a un non meglio identificato riferimento alle “specifiche caratteristiche ontologiche”degli accertamenti standardizzati.
Ma è ovvio che le discrasie all’interno della stessa categoria di accertamento (e alla stessa norma, art. 39 primo comma lett. d) del decreto 600/73) destano più di qualche perplessità anche più in generale. Perché un accertamento fondato sui ricarichi o sull’antieconomicità non richiede contraddittorio e uno sugli studi di settore sì, per esempio? Per noi rimane una questione di difficile comprensione.