Un imprenditore acquista un bene pagando la relativa IVA. Operando però in un settore nel quale le sue operazioni attive sono esenti IVA va applicata la regola del pro-rata (oggi all’articolo 19, quinto comma, del DPR 633/72) e dunque una parte (tutta se l’intero volume d’affari rientrasse nell’articolo 10 del decreto) dell’IVA non è detraibile. Tale IVA diviene essa stessa un costo, quindi. Se il bene acquistato ha utilità pluriennale il costo del bene, comprensivo dell’IVA non detraibile, viene ammortizzato nel tempo.
Tutti coloro che hanno inserito dati contabili fanno così. I gestionali sono impostati in questo modo.
La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, invece, nella Sentenza 19 luglio 2021, n. 20435 (Pres. Virgilio, Rel. Manzon) ci dice che questo non è vero.
Secondo la Suprema Corte, infatti, cui l’IVA indetraibile da pro-rata, sia che sia il 100 per cento dell’imposta a credito sia che riguardi una percentuale inferiore, deve considerarsi un costo generale di esercizio e spesata interamente per cassa nell’esercizio in cui è stato effettuato il pagamento.
A parere della Corte, infatti, riferendosi il “pro rata generale alle tipologie di attività esercitate dal soggetto passivo dell’imposta, la percentuale di indetraibilità intesa come “costo” complessivo ai fini delle imposte dirette non può essere “imputato” al singolo bene cui si riferisce l’operazione esente/imponibile, bensì alle attività medesime nel loro complesso”.
A conclusione del proprio ragionamento viene addirittura enunciato un principio di diritto, che rischia di aprire un’altra vicenda paradossale in cui la dissonanza con la realtà delle aziende è palese: “L’IVA indetraibile per effetto del pro-rata generale di cui all’art. 19, quinto comma, DPR 633/72 è deducibile per cassa nell’anno del pagamento quale componente negativo del reddito di impresa”.
Nel caso specifico si parlava di un immobile acquisito da un’azienda esercente attività sanitaria (in esenzione IVA).
La Corte rileva che la ragione giuridica per la quale l’Ente impositore da una parte, i due giudici di merito dall’altra, hanno sostenuto che si tratti di un imposta che va integrata nel costo del bene per “imputazione diretta” ex art. 110, comma 1, lett. b), dPR 917/1986 e che afferendo l’imposta stessa a beni strumentali essa debba essere “ammortizzata” in quote annuali, secondo la previsione contabile e fiscale riguardante tali beni (rispettivamente art. 2426, primo comma, n. 2, cod. civ. e art. 102, dPR 917/1986).
Lettura per la verità che sommessamente saremmo portati a condividere. Ma per la Corte “Tale impostazione non risulta tuttavia giuridicamente corretta”.
Per i giudici l’applicazione delle percentuali di detraibilità fissate dall’art. 19-bis, primo comma, dPR 633/1972, implicando valutazioni a consuntivo basate su una comparazione biennale, non sono compatibili con la previsione, specifica, di cui all’art. 99, primo comma, dPR 917/1986.
Sicchè l’IVA indetraibile da pro rata, che sia o meno al 100%, comunque deve considerarsi un costo generale di esercizio, appunto in applicazione stretta ed assorbente dell’ultima disposizione legislativa citata, la cui specialità appare evidente, così come dev’essere opportunamente parametrata alle specifiche regole legislative di applicazione dell’IVA stessa.
Infatti, ben diversamente dalle altre ipotesi di indetraibilità (art. 19, secondo e quarto comma), riferendosi il “pro rata generale”, quale indubbiamente quello in questione, alle tipologie di attività esercitate dal soggetto passivo dell’imposta, la percentuale di indetraibilità intesa come “costo” complessivo ai fini delle imposte dirette non può essere “imputato” al singolo bene cui si riferisce l’operazione esente/imponibile, bensì alle attività medesime nel loro complesso.
Ci ripromettiamo di tornare sulla questione che ha già attirato le critiche dei commentatori (quelli veri….) e relativamente alla quale come già anticipato nutriamo molti dubbi.