Interessante per alcuni aspetti l’ordinanza n. 6616 del 16 marzo 2018 della sesta sezione della Corte di Cassazione (pres. Cirillo, rel. Napolitano).
La questione riguarda una eccezione sollevata nel ricorso per Cassazione dall’Agenzia delle Entrate, concernente il divieto di prova testimoniale ex art. 7 del D.Lgs. 546/92. Un contribuente esercente attività di pompe funebri a cui era stato contestato, in via presuntiva, di aver percepito un importo più alto del fatturato per ogni singola prestazione, aveva infatti prodotto prima in adesione e poi in giudizio, più di quaranta dichiarazioni dei propri clienti che confermavano i minori compensi percepiti per i servizi. Per le Entrate aggirando di fatto il divieto predetto.
L’eccezione dell’Agenzia appare francamente di scarsa consistenza alla luce di quanto affermato già dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 18/2000 la quale aveva riconosciuto “… anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale”. I commentatori del tempo avevano giustamente fatto riferimento ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, da pochi mesi modificato all’epoca della sentenza, ai fini della garanzia della parità delle armi processuali nonché della effettività del diritto di difesa.
La Corte, richiamando propri precedenti, ricorda che “Nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d. lgs. n. 546 del 1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorre a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice” (cfr. Cass. sez. 5, 7 aprile 2017, n. 9080; Cass. sez. 5, 5 aprile 2013, n. 8639). “Ciò, analogamente, vale per il contribuente” (cfr. Cass. sez. 5, 21 gennaio 2015, n. 960).
I Giudici di legittimità continuano affermando che “l’attribuzione di valenza indiziaria delle dichiarazioni di terzi anche in favore del contribuente è peraltro funzionale al dispiegarsi del giusto processo ex art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla 1. 4 agosto 1955, n. 848, per quanto attiene all’irrogazione nel processo tributario di sanzioni assimilabili a quelle penali (cfr. Cass. sez. 6- 5 ord. 28 aprile, 2015, n. 8606 e la giurisprudenza della Corte EDU ivi richiamata, tra cui Corte EDU 23 novembre 2006, Pusilla contro Finlandia, e 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia)”.
Il richiamo quindi è alle libertà fondamentali contenute nella CEDU, la cui considerazione non si discosta, nelle conclusioni, dal riferimento alla Costituzione operato a suo tempo dalla dottrina e che ci siamo permessi di ricordare. Ma le conclusioni in riferimento ai principi del giusto processo collimano alla perfezione ed appaiono pienamente condivisibili.