Nell’ordinanza n. 24032 del 26 settembre 2019 della Sezione Tributaria (Pres. Crucitti, Rel. Di Marzio) la Corte di Cassazione torna sul tema della impugnabilità del diniego di autotutela e dell’ambito in cui può spingersi il sindacato del giudice tributario su un atto tributario divenuto definitivo.
Nel caso specifico la CTR aveva ritenuto che “nella fattispecie, essendo il rapporto tributario già definito per mancata impugnazione dell’atto presupposto, l’atto di diniego non è più oppugnatale perché, in caso contrario, qualora se ne consentisse la impugnabilità, ciò darebbe luogo ad una indebita riammissione nei termini, in evidente contrasto con il principio di certezza del diritto, e in violazione del principio di definitività ed inoppugnabilità degli atti, per decorso dei termini decadenziali posti a garanzia fondamentale del nostro ordinamento giuridico”.
E’ chiaro allora che il presupposto del diniego è decisamente errato atteso che nonostante fossero spirati i termini per l’impugnazione, l’A.F. ben avrebbe potuto riesaminare l’atto, alla luce delle eccezioni di illegittimità ed erroneità della pretesa tributaria avanzata, sollevate dalla contribuente.
Quanto alla impugnabilità del diniego la Corte ricorda che l’elencazione degli “atti impugnabili”, contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, tenuto conto dell’ampliamento della giurisdizione tributaria attuato mediante la legge n. 448 del 2001, deve essere interpretata alla luce delle norme costituzionali di buon andamento della P.A. (art. 97 Cost) e di tutela del contribuente (art. 24 e 53 Cost.), riconoscendo la impugnabilità innanzi al giudice tributario di tutti gli atti adottati dall’Ente impositore che portino, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono.
Quindi l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992 è suscettibile di una interpretazione estensiva, e deve essere riconosciuta al contribuente la possibilità di ricorrere, nei termini di legge, alla tutela assicurata dal giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’Ente impositore, e dunque anche in caso di provvedimenti di diniego, o comunque emessi in sede di autotutela – ancorché l’originario provvedimento sia divenuto già definitivo – ogni qual volta tali provvedimenti siano idonei ad incidere sul rapporto tributario.
Quanto poi alla possibilità per il Giudice adito di rivedere un atto tributario ormai definitivo la Corte si rifà al noto precedente (di cui abbiamo più volte riferito come una decisione che attinge più al diritto amministrativo che al diritto tributario) della Corte Costituzionale, la quale ha espressamente affermato che pure “in un contesto così caratterizzato, tuttavia, nel quale l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto acquista specifica valenza e tende in una certa misura a convergere con quello del contribuente, non va trascurato il fatto che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall’annullamento di un atto inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato con gli interessi descritti – e con altri eventualmente emergenti nella vicenda concreta sulla quale l’amministrazione tributaria è chiamata a provvedere – secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa. Sicché si conferma in ogni caso, anche in ambito tributario, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio” (vedi Corte cost., sent. 13.07.2017, n. 181).
Ne consegue che “nel processo tributario, il sindacato sull’atto di diniego dell’Amministrazione di procedere ad annullamento del provvedimento impositivo in sede di autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, che, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 181 del 2017, si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali e non costituisce uno strumento di tutela dei diritti individuali del contribuente”, Cass. sez. V, ord. 24.08.2018, n. 21146).
Resta a nostro avviso da capire quali possano essere le ragioni di rilevante interesse generale. Perché se il concetto può essere facilmente illustrato nel diritto amministrativo, lo è meno nel diritto tributario, nel quale l’atto impositivo è sempre destinato ad uno specifico contribuente. Come i Maestri insegnano l’interesse generale potrebbe facilmente essere identificato nella giusta imposizione, nel rispetto della capacità contributiva e nella buona amministrazione. Tutti motivi a nostro avviso fondamentali e da consolidare, ovvero da far rientrare nella “stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico”. Almeno nel diritto tributario dove non può ravvisarsi, secondo noi, la necessità di conservazione di atti impositivi errati nei presupposti, o di una situazione di ingiustificato arricchimento della Pubblica Amministrazione.
Ma questi oggi sono i limiti a cui è giunta la giurisprudenza. Quindi il contribuente il quale richieda all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi ad eccepire eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione è definitivamente preclusa, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto. Ne consegue che contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per allegare eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria.