L’Ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32424 della sesta sezione della Corte di Cassazione (Pres. Greco, Rel. Luciotti) si occupa del caso di un contribuente che, chiudendo la propria attività di impresa nell’anno 2000, aveva esposto il credito IVA a rimborso nella dichiarazione annuale (rigo RX4), ma non aveva poi presentato il modello VR come previsto dall’articolo 38 bis del decreto IVA.
La Corte respinge il ricorso dell’Agenzia delle Entrate confermando che esiste un consolidato orientamento secondo il quale la domanda di rimborso del credito d’imposta maturato dal contribuente deve considerarsi già presentata con la compilazione del corrispondente quadro della dichiarazione annuale (“RX4”), la quale configura formale esercizio del diritto, mentre la presentazione del modello VR costituisce, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, solo un presupposto per l’esigibilità del credito e, dunque, un adempimento prodromico al procedimento di esecuzione del rimborso (ex plurimis, Cass. nn. 4592 e 4857 del 2015; nn. 10653, 20069 e 26867 del 2014; n. 14070 del 2012; n. 20039 del 2011).
Inoltre ove si tratti – come nel caso di specie – di richiesta di rimborso relativa all’eccedenza d’imposta risultata alla cessazione dell’attività, la fattispecie è regolata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, comma 2, e la richiesta è soggetta al termine di prescrizione ordinario decennale, non a quello biennale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, applicabile in via sussidiaria e residuale, solo in mancanza di disposizione specifiche; e ciò in quanto l’attività non prosegue, sicché non sarebbe possibile portare l’eccedenza in detrazione l’anno successivo (Cass. n. 9941 del 2015, n. 2005 del 2014; nn. 7684, 7685 e 14070 del 2012; nn. 13920 e 20039 del 2011; nn. 9794 e 25318 del 2010; n. 27948 del 2009).
Va inoltre aggiunto che si è correttamente osservato, al riguardo (cfr. Cass. n. 9941 del 2015), che «siffatta soluzione ermeneutica è del resto coerente con il diritto eurounitario, poiché, se è vero che gli Stati membri adottano le misure necessarie ad assicurare l’osservanza degli obblighi di dichiarazione e di pagamento, l’esatta riscossione dell’imposta e la prevenzione di frodi, tuttavia è pur vero che tali misure non possono eccedere gli obiettivi sopra indicati (v. Corte di giustizia, 11 dicembre 2014, in causa C-590/14, Idexx; 8 maggio 2008, in causa C- 95/07 e C-96/07, Ecotrade; 27 settembre 2007, in causa C- 146/05, Coilee), essendo il diritto al ristoro dell’Iva versata “a monte” basilare nel sistema comunitario, in forza del principio di neutralità (cfr. Corte di giustizia, 22 dicembre 2010, in causa C- 438/09, Dankowski, p.to 34, con riguardo al caso di cessazione d’attività; 18 dicembre 1997, in cause riunite C-286/94, C-340/95, C- 401/95, C-47/96, Molenheide e altri). Deve quindi ritenersi ormai definitivamente superato il diverso e più risalente orientamento secondo cui, in caso di cessazione dell’attività, solo una domanda di rimborso conforme al modello ministeriale corrisponderebbe allo schema tipico delineato dall’art. 30 del decreto IVA, con la conseguenza che la domanda difforme resterebbe assoggettata alla decadenza biennale prevista, in via residuale, dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 (Cass. nn. 18920 e n. 18915 del 2011; n. 7669 del 2012)».
La menzione della sentenza del 2015 veicola, se occorresse, anche i principi affermati dalla Corte Ue in tema di neutralità IVA e di proporzionalità, significativi nel caso specifico ma da ricordare anche in numerose altre fattispecie in cui l’amministrazione, in ambito IVA, risulti eccessivamente ancorata a criteri formalistici che violino i citati principi.