La Sentenza 18 gennaio 2019, n. 1304 della quinta sezione della Corte di Cassazione (Pres. Cirillo, Rel. Federici) si occupa di una controversia avente per oggetto i costi dedotti da una società finanziaria, sostenuti in relazione a due piani di incentivazione dei propri promotori finanziari.
Si trattava nel primo caso di un compenso calcolato in percentuale sul portafoglio del promotore secondo scaglioni predeterminati e sopra una certa quantità di capitale amministrato. Il debito riferito al piano complessivo era stato iscritto a bilancio alla voce debitoria “Altre passività-debiti Vs private bankers”. Lo stanziamento complessivo veniva formato in dieci anni e dedotto in pari numero di quote.
Con il secondo si riconosceva un premio in favore del promotore che raggiungeva alla fine di ciascun anno gli obiettivi preventivamente fissati dalla società all’inizio del medesimo anno. Anche in questo caso, come per il primo, la riscossione era differita al raggiungimento di una specifica anzianità di servizio.
L’Amministrazione aveva recupertato i costi negando la loro attualità per essere esborsi subordinati al verificarsi di determinate condizioni, accertabili solo successivamente, sicché la loro deduzione violava i criteri della competenza ratione temporis disciplinata dall’art. 75 TUIR (ora dall’art. 109 TUIR).
In appello il giudice regionale, concordando con la tesi dellìAmministrazione, aveva affermato che i costi non erano certi né determinati, sulla base di una mera operazione matematica, mancando la certezza dell’effettivo esborso, in ragione della molteplicità delle condizioni previste dal regolamento disciplinante l’attribuzione degli incentivi e delle cause di esclusione.
Per la Corte invece è pacifico, perché non contestato e comunque emergente anche dall’avviso di accertamento, che la società effettuò dei versamenti periodici in favore di una compagnia di assicurazione del gruppo per il pagamento delle polizze atte a procurare le disponibilità necessarie a finanziare i piani di incentivazione. E dunque il costo è oggettivo e certo.
Neppure in termini di competenza e inerenza si possono muovere appunti, ai sensi dell’allora vigente art. 75 TUIR (ora art. 109), e non può mettersi in dubbio la correttezza della appostazione in bilancio tra i costi di una quota del 10% per il versamento in unica soluzione relativo al primo piano di incentivazione e dell’intero costo annualmente sopportato per il secondo.
Inoltre va precisato che questa tipologia di fondi, per natura e finalità cui sono destinati, può trovare sistemazione nella categoria generale dei fondi “per rischi e oneri”, esposti nel passivo dello stato patrimoniale ex art. 2424 c.c. (comprensivi di quelli per trattamento di quiescenza ed obblighi simili, tra cui si rinvengono appunto i “fondi di indennità per cessazione di rapporti di agenzia, rappresentanza, ecc., i fondi di indennità suppletiva di clientela, i fondi per premi di fedeltà riconosciuti ai dipendenti” secondo la classificazione prevista nel principio contabile OIC 19). A tal riguardo nella giurisprudenza della Corte vi è sempre maggiore consapevolezza che per essi la previsione, regolamentata, di condizioni al cui verificarsi segua la perdita del trattamento premiale differito alla cessazione del rapporto non esclude la deducibilità dei relativi accantonamenti secondo il principio di competenza (cfr. Cass., sent. n. 7340/2008 in riferimento ai cd. premi fedeltà; Cass., sent. n. 26534/2014 e ord. n. 19620/2018).
Il meccanismo triangolare attuato, tra società concedente, promotore, società assicurativa presso la quale vengono versati gli importi per l’accensione di prodotti assicurativi e previdenziali – di cui dopo il decennio e a conclusione del rapporto lavorativo beneficeranno i promotori – evidenzia il costo sostenuto dalla società ricorrente, ancor più che se gli accantonamenti fossero stati eseguiti presso propri fondi.
In conclusione i costi, comunque effettivamente sostenuti, erano stati correttamente dedotti dalla società nell’osservanza delle regole di contabilità.