Niente di particolarmente innovativo nella Ordinanza n. 13174 del 16 marzo 2019 (Pres. Campanile, Rel. Condello) della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione. Tuttavia l’autorevolezza della elaborazione giurisprudenziale non mancherà di fornire spunti interessanti per la difesa del contribuente in caso di indagini finanziarie e utilizzo delle relative presunzioni in fase di accertamento.
Nel caso specifico un contribuente a fronte delle risultanze di tali strumenti di accertamento aveva opposto giustificazioni avallate da dichiarazioni di terzi (alcuni parenti e un terzo) che davano atto delle motivazioni (evidentemente non afferenti alla sfera reddituale) di alcune movimentazioni bancarie.
La Corte rammenta che “nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (Cass. n. 9080 del 7/4/2017; Cass. n. 8639 del 5/4/2013; Cass. n. 5746 del 10/3/2010)”.
Inoltre si ricorda che tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ., danno luogo a presunzioni (Cass. n. 9402 del 20/4/2007). Infatti, dal divieto di ammissione della prova testimoniale non discende la inammissibilità della prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2729, comma 2, cod. civ. – secondo il quale le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale – poiché questa norma, attesa la natura della materia ed il sistema dei mezzi di indagine a disposizione degli uffici e dei giudici tributari, non è applicabile nel contenzioso tributario (Cass. n. 22804 del 23/10/2006; Cass. n. 960 de 21/1/2015).
Inoltre si precisa come nel pieno rispetto della “parità di armi” tra fisco e contribuente, il diritto vivente ammette l’introduzione indiziaria nel processo tributario di dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale (Corte Cost. 18 del 2000; Cass. n. 20028 del 30/9/2011), sebbene esse non siano assunte o verbalizzate in contraddittorio da nessuna norma richiesto» (Cass. 21812 del 5/12/2012; Cass. n. 960 del 21/1/2015).
L’attribuzione di valenza indiziaria delle dichiarazioni dei terzi anche in favore del contribuente non contrasta, d’altro canto, con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla I. 4 agosto 1955, n. 848, atteso che la Corte Europea dei diritti dell’uomo, a tal proposito, ha chiarito che “l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio non altrimenti rimediabile (Corte EDU 23 novembre 2006, ricorso n. 73053/0143, Jussilla contro Finlandia, e 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia)”.
Infine va detto che la Corte Costituzionale, dichiarando manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate riguardo al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, sia con riferimento all’art. 35, comma 5, del d.P.R. n. 636/1972 (ord. 506/1987, 91/1989, 6/1991, 328/1992), sia con riferimento all’attuale art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546/1992 (Corte Cost. n. 18 del 2000), ha statuito che le dichiarazioni di terzi debbano essere ammesse in giudizio sia a favore dell’amministrazione che del contribuente.
Nel caso specifico la CTR aveva negato che le dichiarazioni dei parenti e di un terzo favorevoli al contribuente potessero assurgere << a prova idonea a giustificare le ingenti somme di moneta contante transitate dal de cuius O. R. al figlio M. R.». Ciò senza fornire altra motivazione.
Dunque per la Corte la sentenza è da cassare giacché non è possibile conoscere il motivo per il quale un elemento di prova perfettamente ammissibile non sia stato idoneamente valutato.