Secondo l’orientamento della Corte di Cassazione confermato nella Ordinanza 25 luglio 2016, n. 15353 della VI Sezione (Pres. Cirillo, Rel. Caracciolo) i commi 302 e 303 dell’art. 1 della legge n. 296/2006 hanno fissato un principio per cui la preesistente indeducibilità dei costi da paesi “Black list” in caso di mancata indicazione separata di questi in dichiarazione dei redditi è venuta meno per tutti i rapporti ancora pendenti (o a termini di accertamento ancora aperti).
Infatti il comma 302 prevede letteralmente che “All’articolo 8 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, dopo il comma 3 è aggiunto il seguente:
“3-bis. Quando l’omissione o incompletezza riguarda l’indicazione delle spese e degli altri componenti negativi di cui all’articolo 110, comma 11, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si applica una sanzione amministrativa pari al 10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000″.
D’altro canto il comma successivo (303) stabilisce: “La disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presente legge, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’articolo 110, comma 11, primo periodo, del citato testo unico delle imposte sui redditi. Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471”.
Ciò premesso la Corte, nella ordinanza di cui trattiamo, propende per confermare l’orientamento consolidato che ritiene (superando un precedente orientamento interpretativo contrario) che: “In tema di reddito d’impresa, l’abolizione del regime di assoluta indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata (cd. Paesi “black list”), ove non separatamente indicati nella dichiarazione annuale dei redditi, a seguito della modifica all’art. 110, commi 10 e 11, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (apportata dall’art. 1, comma 301, della legge 27 dicembre 2006, n. 296), ha integrale portata retroattiva, come può evincersi sia dalla “ratio” della nuova disciplina, che intende contemperare l’interesse del contribuente a poter dedurre i costi effettivamente sostenuti con quello dell’Amministrazione finanziaria ad un efficace controllo, sia dal dato testuale dell’art. 1, comma 303, della legge n. 296 del 2006, che cumula l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 8, comma 3 bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (introdotta dall’art. 1, comma 302, della legge n. 296 del 2006) con quella prevista dall’art. 8, comma 1, del medesimo decreto, quest’ultima giustificata solo in ragione dell’estensione della portata retroattiva dell’abolizione del previgente regime d’indeducibilità” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4030 del 27/02/2015 ed altre successive).
Per conseguenza di ciò, la giurisprudenza di Cassazione è ormai ferma nel ritenere che la disciplina sopravvenuta ha degradato – con effetto retroattivo – la separata indicazione dei costi da presupposto sostanziale di relativa deducibilità ad obbligo di carattere formale, passibile di corrispondente sanzione amministrativa.
Detto obbligo di carattere formale – per effetto della concreta applicazione che deriva dalla menzionata esegesi delle disciplina – non può che avere precipua autonomia rispetto alla deduzione e prova della sussistenza dei presupposti necessari ai fini della detrazione dei costi.
Infine la Corte rileva che non può porsi il dilemma della applicazione alla specie di causa della sola previsione dell’art. 8 comma 1 del D.Lgs. 471/1997 alla luce della espressa previsione della norma contenuta nell’ultima parte del comma 8-ter del medesimo articolo (“Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471″) con la quale – per il suo indiscutibile significato letterale – il legislatore non può che avere inteso affermare che le norme sanzionatorie si applicano entrambe.
Quindi la Corte ritiene, relativamente alla una violazione di un “obbligo di carattere formale” che si debbano applicare sia la sanzione per violazioni formali (articolo 8 comma 1 D.Lgs. 471/97 da euro 250 a euro 2.000) sia quella specifica del 10% dei costi black list non esposti prevista dal comma 3-bis dello stesso articolo 8.
Torneremo con le nostre ulteriori riflessioni sulla doppia sanzione per un’unica violazione. A una prima analisi, del tutto sommaria, ci sembrerebbe un criterio che confligge con tutta la riforma del 1997 e con la stessa legge delega (L. 662/96). Se non ricordiamo male infatti nella delega si prevedeva un’unica specie di sanzione pecuniaria amministrativa, assoggettata ai princìpi di legalità, imputabilità e colpevolezza e determinata in misura variabile fra un limite minimo e un limite massimo ovvero in misura proporzionale al tributo cui si riferisce la violazione. La parola “ovvero” pare sufficientemente chiara: una congiunzione disgiuntiva ha infatti la funzione di introdurre un’alternativa tra due concetti. O sanzione fissa (tra un minimo e un massimo) o sanzione proporzionale, quindi.
Addirittura tra i principi alla base della riforma delle sanzioni c’era l’introduzione di un’unica sanzione in caso di concorso di più violazioni. Non pare di potersi ravvisare invece un criterio che preveda a due distinte sanzioni (una fissa e una proporzionale) per un’unica violazione commessa.