Una ordinanza non del tutto lineare quella della Sezione filtro della Corte di Cassazione n. 2544 del 1° febbraio 2018 (Pres. Cirillo Rel. Napolitano).
I Giudici accolgono un ricorso dell’Agenzia delle Entrate fondato sulla violazione di legge con riferimento alle norme sull’accertamento da studi di settore. Precisamente vengono richiamati gli “artt. 62 bis d.l. 331/93 e art. 39 d.P.R. 600/73, 2729, 2727 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”
La motivazione della sentenza di appello, da ciò che viene riportato, nel caso specifico era “non si ritiene di individuare alcun parametro per qualificare la gravità dell’incongruenza”.
Quindi, su tali basi (le norme asseritamente violate e la motivazione della sentenza) si snodano le seguenti motivazioni dell’ordinanza:
“Se è certamente vero che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte in tema di accertamenti di tipo analitico — induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973, basati su valori desunti da studi di settore, a seguito della rituale instaurazione del contraddittorio, le rilevazioni degli studi di settore, che di per sé costituiscono il frutto di elaborazioni statistiche acquisite su dati settoriali riferite ad una pluralità di contribuenti, poste a confronto con le giustificazioni offerte dal contribuente, legittimano l’accertamento basato su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, nella fattispecie in esame deve rilevarsi che, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio, l’Ufficio ha dato contezza del perché le giustificazioni offerte dalla società non fossero idonee a giustificare razionalmente il divario rispetto allo studio di settore (si veda il riepilogo, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, delle relative circostanze a pagina 12 del ricorso). Orbene, nella valutazione del giudice di merito, è mancata del tutto qualsiasi valutazione di detti elementi, sicché risulta viziato, proprio sul piano della correttezza logico — giuridica, in relazione al parametro legale degli artt. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973 e 2729 c.c., il ragionamento inferenziale, che si è limitato a dar conto delle deduzioni della contribuente avverso l’applicabilità, nella fattispecie, dei dati risultanti dallo studio di settore, omettendo qualsivoglia valutazione delle circostanze in forza delle quali l’Ufficio aveva ritenuto le giustificazioni offerte dal contribuente inidonee a giustificare la rilevata grave incongruenza del dato relativo ai ricavi dichiarati rispetto alla media rilevata dallo studio di settore di riferimento”.
Secondo la Corte “in tema di accertamento induttivo basato su parametri o studi di settore, una volta instaurato il contraddittorio nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, al contribuente incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazione di mezzi e di contenuto, la sussistenza di quelle circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal normale modello di riferimento settoriale ritenuto applicabile, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento”.
Ma è davvero così?
Per rispondere bisogna tornare a quanto affermato dalle Sezioni Unite nelle sentenze del 18 dicembre 2009 in tema di accertamenti standardizzati. Ovvero:
“La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sè considerati, ma nasce proccdimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente”.
In particolare le sezioni unite, in merito alla gravità degli scostamenti, argomentano: “Lo scostamento non deve essere “qualsiasi”, ma testimoniare una “grave incongruenza” (come espressamente prevede il D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, e come deve interpretarsi, in una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, la L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, nel quale pur essendo presente un diretto richiamo alla norma precedentemente citata, non compare in maniera espressa il requisito della gravità dello scostamento): tanto legittima l’avvio di una procedura finalizzata all’accertamento nel cui quadro i segnali emergenti dallo studio di settore (o dai parametri) devono essere “corretti”, in contraddittorio con il contribuente, in modo da “fotografare” la specifica realtà economica della singola impresa la cui dichiarazione dell’ammontare dei ricavi abbia dimostrato una significativa “incoerenza” con la “normale redditività” delle imprese omogenee considerate nello studio di settore applicato”.
Allora bisogna forse concludere che la gravità dello scostamento sia da valutare non soltanto in termini numerici (pare di capire che qualche punto percentuale non possa neppure innescare, in quanto presunzione semplice non qualificata, la procedura) ma in contraddittorio con il contribuente. La gravità della presunzione diviene quindi l’esito di un procedimento che coinvolge i due soggetti.
Tornando alla sentenza di appello in contestazione, come detto la sua motivazione era “non si ritiene di individuare alcun parametro per qualificare la gravità dell’incongruenza”. La CTR ha espresso quindi un giudizio di insufficienza probatoria dell’accertamento e di conseguente illegittimità.
Il che è del tutto coerente con quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2009: evidentemente i Giudici regionali hanno ritenuto non dimostrata la gravità dell’incongruenza che è presupposto per l’accertamento. Nessuna violazione di legge pare configurarsi, ad onta di quanto affermato nell’ordinanza.
Il profilo evocato dalla Corte tuttavia pare più vicino al difetto di motivazione che alla violazione di legge, situazioni distinte all’interno del 360 c.p.c. eppure non così distanti se è vero che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa.
Pare quindi che l’Ordinanza decida in base ad una eccezione sul presupposto della violazione di legge una questione in realtà attinente la nullità della sentenza per insufficiente motivazione.
Ci pare di ricordare al riguardo che l’errata indicazione di una norma nell’intestazione del motivo di ricorso per Cassazione non è causa di inammissibilità dell’impugnazione purché nel contesto della censura il vizio da denunciare emerga inequivocabilmente. È il principio affermato dalla sentenza 17931/2013 delle Sezioni unite della Cassazione. Quindi l’esito dell’ordinanza potrebbe essere comunque reggere. Ma certo le considerazioni svolte non sono immuni da qualche sovrapposizione di concetti.