Interessante (e molto rilanciata dai media) la sentenza 7 luglio 2016, n. 28225 della III Sezione Penale della Corte di Cassazione (Pres. Rosi, Rel. Aceto).
La questione verte su un provvedimento di confisca a carico di un amministratore di società, imputato del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture emesse per operazioni inesistenti. Il ricorrente lamenta la circostanza che la confisca può essere disposta in via residuale e sussidiaria solo quando non possa essere eseguita in via diretta nei confronti della società beneficiaria del vantaggio derivante dal reato, passaggio procedurale, quest’ultimo, del tutto omesso dal G.i.p.
Il motivo viene accolto dalla Corte. Essa precisa che l’istituto della confisca per equivalente (o di valore) del profitto del reato, di cui all’art. 322-ter, comma 2, cod. pen., originariamente introdotto dall’art. 31, legge 29 settembre 2000, n. 300 per il solo delitto di cui all’art. 321, cod. pen., è stato progressivamente esteso anche ad altri reati e, dell’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, anche ai delitti di cui al d.lgs. n. 74 del 2000. Attualmente l’istituto trova una sua autonoma (e parzialmente nuova) disciplina nell’art. 12-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto dall’art. 10, comma 1, d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.
L’istituto è stato sempre considerato dalla Corte come avente natura sanzionatoria (Sez. 2, n. 21566, del 08/05/2008, Puzella, Rv. 240910; Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037; Corte cost.le, ordinanza n. 97 del 2009).
Trattandosi di una vera e propria sanzione, essa è applicabile all’autore materiale del reato alla sola condizione della impossibilità, anche se transitoria e reversibile, di reperire i beni costituenti il profitto del reato (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648).
Pecca quindi di difetto motivazionale la sentenza che non indichi, disponendo la confisca a carico dell’amministratore, le ragioni per cui sussisteva – all’epoca della richiesta del sequestro preventivo per equivalente e della sua adozione – l’impossibilità, anche soltanto transitoria e reversibile, del reperimento dei beni costituenti il profitto del reato tributario de quo nell’ambito del patrimonio aziendale della società.
E’ questo il caso della sentenza impugnata.
Non solo. Ma per la Corte in sede di rinvio il Tribunale dovrà tenere conto della sopravvenuta modifica normativa per effetto della quale, “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro.” (art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000). Risulta, infatti, dal testo della sentenza impugnata che la società ha stipulato con l’amministrazione finanziaria un accordo di rateizzazione del debito, in corso di esecuzione al momento della richiesta di applicazione della pena. Ebbene per la Cassazione l’assunzione dell’impegno, nei soli termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, transazione fiscale, attivazione di procedure di rateizzazione, automatica o a domanda), è di per sé sufficiente a impedire la confisca (diretta o per equivalente, la norma non fa distinzioni) dei beni che ne sarebbero oggetto poiché ritenuta comunque satisfattiva dell’interesse al recupero delle somme evase (o non versate) che dovrebbero essere ugualmente ottenute dall’esproprio dei beni del contribuente (in caso di confisca diretta), o dell’imputato, se diverso (in caso di confisca per equivalente).