Operazioni soggettivamente inesistenti: ancora chiarimenti sulla ripartizione dell’onere probatorio.

Siamo tornati più volte sul tema delle operazioni soggettivamente inesistenti e della prova della conoscibilità della frode da parte del cessionario. Non ripercorreremo quindi il lungo e piuttosto travagliato iter giurisprudenziale della Suprema Corte, del quale abbiamo ampiamente reso conto ai nostri lettori. Registriamo solo positivamente il fatto che nel corso dell’anno che si sta concludendo si è ormai consolidata la lettura per cui all’amministrazione finanziaria compete non solo l’onere della prova dell’esistenza della frode a monte, ma anche quello dell’esistenza di condizioni e circostanze le quali, valutate con l’ordinaria diligenza, avrebbero dovuto mettere sull’avviso il cessionario.

Torna sul tema, con una impostazione sistematica (ma in realtà, a nostro modesto avviso, forse meno rigorosa e precisa di altre pronunce) la Sentenza 12 dicembre 2018, n. 32092 della Sezione Tributaria (Pres. Campanile, Rel. Dell’Orfano).

Secondo la Corte “va dunque data continuità ai seguenti principi di diritto: in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente, incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e dì aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.

Nel caso specifico viene invece accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate contro la sentenza della CTR che aveva ritenuto come elemento idoneo a provare le ragioni dell’acquirente il fatto che nel procedimento penale il Procuratore della Repubblica…(aveva)… chiesto “l’archiviazione del procedimento in capo a tutti gli indagati per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste”.

Sul punto sappiamo dalla giurisprudenza della Corte che il parallelo tra processo penale e processo tributario è solo funzionale (per le evidenti differenze tra i due) a costruire la prova in ordine a circostanze che sono state oggetto di specifica valutazione in altro ambito, quando i mezzi probatori utilizzati siano del tutto comparabili. Viceversa, se il Giudice tributario, di fronte ad una specifica eccezione del ricorrente, ritenesse di non rifarsi alle conclusioni del processo penale, dovrebbe motivare relativamente a tale scostamento, non essendo sufficiente richiamare il principio del doppio binario.

Nel caso specifico non è stata fatta, pare, dal giudice penale, alcuna valutazione in ordine alla conoscibilità della frode da parte dell’acquirente. E non è pertinente, per la Corte, rifarsi a quelle conclusioni che hanno statuito solo la mancata prova, nel giudizio penale, della partecipazione o organizzazione della frode carosello.