Forse un po’ troppo enfatizzata dalla stampa specializzata la Sentenza 10 novembre 2020, n. 25106 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Virgilio Rel. Triscari), la quale sostanzialmente ribadisce quello che è l’orientamento degli ultimi due-tre anni della Corte in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, più in linea rispetto al precedente con le elaborazioni delle Corti Europee.
Ricordiamo al riguardo che Ne abbiamo dato conto a più riprese, già alla fine del 2018 e, più in dettaglio, sia a novembre che a dicembre, si determinò un deciso cambio di prospettiva nella giurisprudenza della Corte, confermato di lì a pochi mesi nell’aprile 2019.
Nel caso della odierna pronuncia l’esposizione diviene in taluni passaggi assai chiara e schematica enunciando che quando l’amministrazione contesti la detrazione dell’Iva in quanto relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti:
1) ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; 2) la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente;
3) incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.
La CTR nel caso specifico aveva ritenuto che l’indizio della frode a monte, in una cessione di autovetture, fosse da ricercare nella vendita sottocosto da parte del fornitore. Ma tale dato, secondo la Corte, non era conoscibile dalla contribuente la quale aveva invece dimostrato, al contrario, in tutti i gradi di giudizio che le auto acquistate avevano un prezzo del tutto in linea con le quotazioni ufficiali.