Come è ben noto, il secondo comma dell’articolo 12 del d.l. 1° luglio 2009 n. 78 introdusse una presunzione in relazione alla necessità di contrastare la detenzione di attività finanziarie in paradisi fiscali. Precisamente si statuì che “In deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 10 maggio 1999, n. 110, e al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 novembre 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 23 novembre 2001, n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione”.
La norma è stata utilizzata dall’Amministrazione finanziaria per contestare violazioni relative anche a periodi di imposta antecedenti alla sua approvazione, in relazione ad una ipotetica natura procedimentale della disposizione. Negli anni quindi si è prodotto un volume elevato di contenzioso sul tema, contenzioso avente ad oggetto appunto la legittimità o meno dell’applicazione retroattiva della presunzione nonché, soprattutto, del raddoppio dei termini ad essa ricollegato.
La Corte di Cassazione era già intervenuta qualche mese fa con l’ordinanza n. 2662 del 2018 della VI Sezione, nella quale si era affermato che “la pretesa natura procedimentale della norma di cui all’art. 12, comma 2, del d.l. n. 78/2009 che pone, in favore del fisco, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro normativo previgente, oltre a porsi in contrasto con il tradizionale criterio della sedes materiae, che vede abitualmente le norme in tema di presunzioni collocate nel codice civile e dunque di diritto sostanziale e non già nel codice di rito, porrebbe il contribuente, che sulla base del quadro normativo previgente non avrebbe, ad esempio, avuto interesse alla conservazione di un certo tipo di documentazione, in condizione di sfavore, pregiudicandone l’effettivo espletamento del diritto di difesa, in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost.”.
Nell’ordinanza 30 gennaio 2019, n. 2562 della Sezione Tributaria (Pres. Manzon, Rel. Triscari) si riprendono tali argomentazioni e si concorda sulle conclusioni. Proprio citando la precedente ordinanza la Corte ricorda di aver già chiarito “che la presunzione di evasione sancita da tale norma, in vigore dal 1° luglio 2009, non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzioni collocate, tra quelle sostanziali, nel codice civile. Inoltre una differente interpretazione finirebbe per pregiudicare – in contrasto con gli artt. 3 e 24 cost. – l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione probatoriamente rilevante (v. Cass. n. 2662-18)”. Secondo la Sezione Tributaria tale principio deve trovare conferma, decisivo essendo che l’effetto della presunzione opera in termini di determinazione della base imponibile, la quale appunto si presume in forza della disponibilità estera.