Principio di competenza inderogabile per la Cassazione. Ma le argomentazioni non convincono affatto.

La Sentenza 13 marzo 2019, n. 7121 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Cirillo, Rel. Cataldi) ripropone le conclusioni a cui erano giunte alcune precedenti massime della Corte stessa in tema di inderogabilità del principio di competenza di cui all’attuale articolo 109 TUIR (vecchio art. 75).

La questione verte sul fatto che, spostando un componente positivo o negativo da un esercizio all’altro, si determina da un lato il recupero di imposta, dall’altro, specie in regime di imposta proporzionale come l’IRES, il diritto ad essere rimborsati. Tanto è vero che nel caso specifio la CTR aveva adottato una impostazione di sostanza, non liquidando alcuna imposta.

Per la Sezione Tributaria invece questa Corte ha costantemente ribadito che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito, dettate in via generale dall’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986, sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo del reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza (Cass., 18/12/2009, n. 26665. Nello stesso, ex plurimis, già Cass. 15/11/2000, n. 14774, in motivazione; Cass., 13/5/2009, n. 10981, in motivazione, citata nella stessa sentenza impugnata; Cass. 17/07/2014, n. 16349; Cass. 30/7/2018, n. 20095), poiché ciò finirebbe per rendere lo stesso contribuente arbitro della scelta del periodo più conveniente in cui dichiarare i componenti del proprio reddito, con innegabili riflessi sulla determinazione del relativo reddito imponibile”.

Di conseguenza la violazione dei criteri d’imputazione cronologica dei componenti positivi e negativi del reddito “non costituisce una violazione meramente formale”, sia perché l’imputazione ad un determinato periodo di imposta di componenti ad esso estranei (in quanto riferibili ad altro periodo) incide sulla determinazione del reddito d’impresa di quella specifica annualità (cfr. Cass. 03/10/2018, n. 24006); sia perché, comunque, «in nessun caso […] il contribuente può scegliere liberamente, secondo le proprie convenienze, l’esercizio in cui registrare i costi, dovendo l’eventuale spostamento dall’anno di riferimento essere ancorato a fatti obbiettivi e verificabili.» (Cass., 30/12/2009, n. 28070. Nello stesso senso, Cass. 30/7/2018, n. 20095).

Questa idea che il contribuente scelga a proprio piacimento l’imputazione migliore, per propria convenienza, in regime di imposta proporzionale, è francamente lontana dalla realtà. Spesso si tratta di rilevazioni contabili che vengono effettuate in modo routinario e usando dei software. Per esempio: si ha un incasso il 20 dicembre? Siccome va fatta la fattura a quella data il gestionale registrerà con tutta probabilità anche il ricavo. Anche se poi la merce verrà spedita poniamo il 2 gennaio. Così come probabilmente negli acquisti si caricherà il magazzino con procedure automatizzate (codici a barre e simili) per un arrivo di merce ai primi di gennaio, quando magari la spedizione da parte del fornitore è stata effettuata prima di Natale.

Quindi nessuna arbitrarietà si nota nella vita pratica. Quanto errori molto veniali, dovuti in gran parte a procedure automatizzate e senza alcun danno per l’erario.

Quanto poi alle conseguenze dello spostamento dell’imputazione temporale, con conseguente credito per l’imposta versata in eccesso, le argomentazioni si fanno ancora meno convincenti. Letteralmente “…. questa Corte ha costantemente affermato che la deroga del criterio di competenza non può essere legittimata neppure dalla paventata  conseguenza dell’eventuale doppia imposizione, a sua volta vietata dall’art. 127 d.P.R. 917 del 1986, trattandosi di un effetto che deriva direttamente dall’applicazione dell’art. 75 d.P.R. 917 del 1986 e che, in base ai principi generali, è evitabile dal contribuente mediante l’esercizio, con la richiesta di rimborso (e conseguente impugnazione, ai sensi dell’art. 19 d. Igs. n. 546/1992, del silenzio rifiuto su di essa eventualmente formatosi) della maggior imposta in ipotesi versata per la mancata esposizione di componenti del reddito nell’annualità di effettiva competenza, che è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 cod. civ., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (ex plurimis, Cass., 13/5/2009, n. 10981, in motivazione; Cass., 06/09/2017, n. 20805 ; Cass. 30/7/2018, n. 20095)”.

La tesi della Corte dunque è quella per cui se il contribuente deve versare imposta per un’annualità, si attiverà poi per l’altra nella quale si genera il credito, con relativo ricorso tributario contro il silenzio rifiuto. Due processi per porre in essere una compensazione, insomma….

Siamo invece convinti che una interpretazione costituzionalmente orientata avrebbe dovuto suggerire di badare molto più alla sostanza che alla forma, sia in applicazione del principio di capacità contributiva, sia di quello della economia processuale (ormai presente da più di vent’anni nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche prima della riforma dell’articolo 111 Cost.).

Quanto alla condotta dell’Agenzia sappiamo bene che nelle circolari dal 2012 in avanti si esorta a sistemare questi rapporti debito/credito con gli istituti deflattivi (adesione, mediazione….). Si pensi al riguardo alla questione notissima dei crediti da dichiarazione omessa. Perché allora porre la questione sul piano rigorosamente formale in giudizio? Perché costringere il contribuente ad attivare un altro processo finalizzato al rimborso? A nostro avviso, le maggiori difficoltà che si determinano in capo al contribuente potrebbero, con l’impostazione che si legge nella sentenza, far ravvisare un vero e proprio abuso del processo da parte dell’Agenzia. E, sotto altro profilo, una evidente violazione del principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria.

Un’ultima osservazione. Il comma 4 dell’articolo 1 del D.Lgs. 471/1997, dopo le modifiche del D.Lgs. 158/2015, stabilisce che, in caso di errori sulla competenza “(…) se non vi è alcun danno per l’Erario, la sanzione è pari a euro 250 (…)”. Sul concetto di “danno per l’Erario” la relazione illustrativa al D.Lgs. 158/2015 ha precisato che “(…) si tratta esclusivamente delle ipotesi in cui l’anticipazione o la posticipazione dell’elemento reddituale non abbia prodotto alcun vantaggio nei confronti del contribuente (…)”. Ora, a parte la focalizzazione più sui vantaggi del contribuente che sui danni per la riscossione, da questa impostazione pare di capire che il legislatore stesso abbia inteso regolare lo specifico tipo di violazioni con la sola sanzione in misura fissa e senza recupero di imposta. Il richiamo alla “mera violazione formale” che evoca il comma 3 dell’articolo 10 dello “Statuto”, che si fa nella sentenza, appare dunque fuori luogo. Non serve un principio generale quando c’è una norma specifica.