Se in un controllo della contabilità non si trovano alcune fatture, ma si può ricostruire il reddito in modo induttivo, considerato anche il modesto importo delle singole fatture emesse e il ridotto numero nel loro insieme, non si può ravvisare il dolo specifico, ovvero l’elemento soggettivo del reato di occultamento documenti contabili (art. 10, del d.Lgs. n. 74 del 2000).
Non è provata insomma, in tali circostanze di fatto, l’esistenza del fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, alla base dell’occultamento delle scritture contabili. Infatti il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria può essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore interessato: in tal caso manca la necessaria offensività della condotta.
In questo senso la Sentenza 8 maggio 2017, n. 22126 della III Sezione Penale della Corte di Cassazione (presidente Rosi, relatore Socci). Il caso era quello di un contribuente presso il quale i verificatori della guardia di finanza hanno rinvenuto le fatture dalla n. 1 alla 37, nonché la fattura n. 47 datata 30 dicembre 2009. Quindi è stato agevole dimostrare la mancanza delle fatture dalla n. 38 alla 46 e da ciò, con la media dell’importo delle fatture reperite, ricostruire il reddito.
Considerando il numero limitato delle fatture mancanti (9), l’importo medio di soli € 281,48 per fattura, ed il periodo di soli 2-3 mesi, la Corte non ha insomma ritenuto la sussistenza del dolo specifico di evasione, conclusione confermata anche dalla consegna dell’ultima fattura (la 47) malgrado mancassero le altre.