Quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato, ma solo sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta.
Questo secondo la terza sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza 49199 depositata il 29 ottobre 2018 (Pres. Cavallo Rel. Socci)
Nel caso specifico il Giudice per le indagini preliminari aveva escluso in radice la possibilità del sequestro preventivo diretto nei confronti della società per le ipotesi di reato ex art. 5, d. Igs. 74/2000: «perché il profitto consiste nel mancato versamento dell’imposta e dunque in un’entità immateriale che non si è mai incorporata in moneta contante e che non ha mai comportato un afflusso diretto di denaro nelle casse della società non potrà mai procedersi al sequestro (ai fini di confisca) in forma diretta, ma solo esclusivamente nella forma per equivalente».
Secondo la Corte così non è, in quanto «Il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito» (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015). Infatti il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito; conseguentemente il mancato pagamento delle imposte (per omessa dichiarazione) comporta un vantaggio economico, derivante dal risparmio delle somme non versate all’erario. E, pertanto, il denaro eventualmente esistente nelle casse dell’ente può e deve sequestrarsi in via diretta, ove possibile.
Nel caso sottoposto alla Corte, dunque, occorreva procedere prima sui beni della società e poi, solo in via sussidiaria, su quelli del legale rappresentante.