La Sentenza della Quinta Sezione della Corte di Cassazione, n. 21290 del 20 ottobre 2016, Pres. Tirelli, Rel. Scoditti, analizza, sulla base di precedenti sentenze (Cass. 21 ottobre 2010 n. 21713; Cass. 22 aprile 1998 n. 3953) e di riferimenti alla Corte di Giustizia UE (10 marzo 2011, causa C-497/09 e altre) il trattamento IVA della somministrazione di pasti a titolo gratuito da parte di una società commerciale (che nel caso specifico esercitava attività di albergo) con riferimento a) ai dipendenti b) all’imprenditore e ai propri congiunti.
Secondo la Corte vanno distinte le due situazioni. Infatti ai pasti e bevande consumati da parte dell’imprenditore o dei suoi familiari trova applicazione l’art. 2, comma 2, n. 5) del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, riguardante l’autoconsumo dei beni ai fini dell’IVA, secondo il quale i beni destinati all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore rappresentano una cessione di beni assoggettabile ad Iva. Tale conclusione va comunque temperata con i riferimenti alla giurisprudenza euro-unitaria, per la quale deve accertarsi se gli elementi di prestazione di servizi che precedono e accompagnano la fornitura dei cibi siano o meno preponderanti.
Alla stregua di quanto sopra evidenziato, la fruizione dei pasti da parte dei dipendenti non può invece essere considerata autoconsumo di beni. Si comprende così perché a mente dell’art. 3, comma 3, d.p.r. n. 633/1972 le somministrazioni nelle mense aziendali non costituiscano prestazioni di servizi ai fini dell’IVA. Alle predette conclusioni raggiunte è peraltro conforme la risposta ad interpello 913-344/2011 dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale del Lazio.
In generale vanno analizzate le condizioni di fatto, ma comunque il principio di diritto che regola il trattamento iva delle somministrazioni ai dipendenti è quello per cui esse non costituiscono né ricavo, né operazione assoggettabile ad IVA. La somministrazione all’imprenditore e familiari dello stesso è invece autoconsumo da considerare ai fini impositivi (sia come ricavo che come base imponibile IVA) al “valore normale” che va tuttavia contestualizzato al tipo di prestazione e non deve necessariamente fatto coincidere con il prezzo praticato a terzi.