Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte anche con operazioni di ristrutturazione aziendale.

Articolata sentenza della III Sezione penale la n. 44451 del  27 settembre 2017 (pres. Savani, rel. Renoldi).

La questione riguarda il reato di cui all’art. 11, D.Igs. 10 marzo 2000, n. 74, rubricato “sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”. La norma punisce “con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Inoltre, qualora l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi sia “superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”.

La Corte ricorda dunque che, per configurare il reato, sotto il profilo oggettivo è necessario che il soggetto attivo realizzi uno o più operazioni attraverso cui “alieni simulatamente” determinati beni o compia, comunque, “altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni”; operazioni idonee “a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. La norma incriminatrice, pertanto, se da un lato tipizza, in maniera sufficientemente precisa, attraverso il riferimento agli “atti simulati”, una modalità della condotta, dall’altro lato, riferendosi al compimento di “altri atti fraudolenti”, utilizza una formula di chiusura che definisce un ambito assai ampio di condotte rilevanti, comprensivo di tutte le condotte attraverso le quali il contribuente intenda far apparire, contrariamente al vero, che i suoi beni non possano soddisfare la pretesa esecutiva erariale. Tali atti, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, non presuppongono “come necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione coattiva”, non essendo questa espressamente prevista diversamente dall’omologa fattispecie, oggi abrogata, di cui all’art. 97, comma 6, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Sez. 3, n. 14720 del 6/03/2008, P.M. in proc. Ghiglia, Rv. 239971; Sez. 5, n. 7916 del 10/01/2007, Cutillo, Rv. 236053).

La fattispecie in esame, dunque, è oggi costruita dal legislatore non come reato di danno, ma come semplice reato di pericolo (Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251076) rispetto “all’interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva” (Sez. 3, n. 3539 del 20/11/2015, Cepparo, Rv. 266133). Ne consegue che, a fortiori, l’idoneità a vanificare il soddisfacimento della pretesa erariale connessa all’obbligazione tributaria sussiste pacificamente quando si sia realizzata “una diminuzione, anche non totale, della garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio del debitore fiscale” (così Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, Arosio, Rv. 266134).

Sotto il profilo soggettivo, la fattispecie in esame si connota per la presenza del dolo specifico, consistente nella finalizzazione dell’alienazione simulata o del compimento di altri atti fraudolenti, idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, alla sottrazione “al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrativi relativi a dette imposte” (Sez. 3, n. 27143 del 22/04/2015, Noviello, Rv. 264187; Sez. 3, n. 14720 del 6/03/2008, P.M. in proc. Ghiglia, Rv. 239970).

In questo schema molto ampio definito dalla giurisprudenza penale, a nostro modesto avviso, rischiano di restare “impigliate” delle condotte che non hanno carattere fraudolento, ma che, valutate sotto il profilo del pericolo astratto, possono avere certamente qualche profilo di rischio per la “garanzia patrimoniale generica” del debitore fiscale.

Nel caso specifico si parla di una operazione di ristrutturazione aziendale piuttosto complessa e non ben descritta nella motivazione. In tale ambito sono stati messi in atto un conferimento di ramo d’azienda, una liquidazione (nella quale viene ravvisata una falsa rappresentazione contabile di assenza di debiti, non sappiamo su quale presupposto), la costituzione di due s.r.l. che avevano acquistato due rami di azienda, mentre un terzo era stato ceduto ad una società esistente. Da questa complessa descrizione l’elemento “pericolo” non può che emergere con tutta evidenza. Ma siamo davvero sicuri del disegno fraudolento?

E qui la sentenza non convince asserendo che “sulla base degli elementi indiziari testé riassunti i giudici del riesame hanno compiuto una operazione di ricostruzione fattuale, niente affatto illogica, che li ha condotti a ritenere sussistente la ricordata finalità fraudolenta”.

Anche le difese degli imputati non vengono ritenute fondate poiché “non consentono di escludere una situazione di pericolo circa la effettiva riscossione da parte dell’Amministrazione tributaria”.

Segue una trattazione più approfondita sulle responsabilità dell’alienante per debiti dell’azienda ceduta.

La sensazione è che la normativa degli anni più recenti e la sua interpretazione giurisprudenziale, pur con una giusta attenzione alla fase della riscossione, abbiano davvero reso molto sfumati i comportamenti che divengono penalmente rilevanti per il debitore fiscale. Ed ogni condotta, in questa fase già difficile, rischia di essere interpretata in senso negativo, di fronte ad un generico “pericolo”, con conseguenze pesanti per i soggetti coinvolti.

E’ davvero sensato che l’unica possibilità in caso di difficoltà finanziarie sia quella di pagare i tributi fino all’esaurimento dell’attività e delle disponibilità? O non sarebbe meglio cercare di salvaguardare l’avviamento e i posti di lavoro? La risposta ovviamente esula dal sintetico commento ad una sentenza e investe scelte principalmente di natura politica.