In tema di tassa per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani (TARSU), ai sensi dell’art. 62 del d.lgs. n. 507 del 1993, applicabile “ratione temporis”, nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, di regola, rifiuti speciali, per tali dovendosi intendere, ex art. 2 del d.P.R. n. 915 del 1982, fra l’altro, quelli “derivanti da lavorazioni industriali”.
Su tale disciplina, infatti, non ha inciso l’art. 39 della I. n. 146 del 1994, il quale, nell’abrogare l’art. 60 del d.lgs. n. 507 del 1993 (dettato in tema di equiparazione dei rifiuti e che, peraltro, si riferiva soltanto a quelli artigianali, commerciali e di servizi), non ha assimilato “ope legis” tutti i rifiuti (esclusi quelli speciali, tossici e nocivi) a quelli urbani, limitandosi ad escludere la necessità di un provvedimento comunale di assimilazione per quei rifiuti già contemplati dalla norma abrogata; ne deriva che i luoghi specifici di lavorazione industriale, cioè le zone dello stabilimento sulle quali insiste il vero e proprio opificio industriale, vanno considerate estranee alla superficie da computare per il calcolo della predetta tassa.
Lo conferma la quinta sezione della Corte di Cassazione nella sentenza 23 febbraio 2018 n. 4412 (Pres. Chindemi, Rel. Stalla), facendo riferimento all’ordinanza 17293 dello scorso anno.
Sulla base di tale principio, il ricorso della contribuente viene accolto poiché il problema di causa verteva proprio sull’accertamento della natura “industriale” dell’attività svolta dalla società contribuente nei locali tassati, e della natura “speciale” (non assimilabile) dei rifiuti prodotti nella superficie corrispondente ai locali medesimi.